I dibattiti dei giorni scorsi in seno al Consiglio della Banca centrale europea, e nei suoi dintorni, delineano con sempre maggiore chiarezza che alcuni principi di base dell’unione monetaria e degli accordi intergovernativi successivi al Trattato di Maastricht (quali il Fiscal compact) non sono condivisi tra gli Stati che li hanno sottoscritti e ratificati. O quanto meno che le interpretazioni divergono profondamente. Nonostante la Gran Bretagna non faccia parte dell’unione monetaria, l’avvicinarsi del referendum sul suo futuro rispetto al resto dell’Unione europea sta aumentando le tensioni all’interno dell’area dell’euro, e non solo.
Nel numero in uscita del Journal of Empirical Finance, tre economisti dell’Università del Lussemburgo – Roman Kräusel, Thorsten Lehner e Denitsa Stefanova – sottolineano, in un acuto saggio, che il problema (già evidenziato da numerosi studiosi sin da quando l’unione monetaria era in confezione) era già esploso con la crisi del debito sovrano europeo (The Europeam Sovereign Debt Crisis: What Have We Learned). Al tema, Il Corriere della Sera ha dedicato un editoriale, a firma di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in cui si pone chiaramente il problema chiedendo in quale Europa l’Italia intende stare.
Non è una novità che, dopo “l’allargamento” di 12 anni fa, l’Ue abbia gradualmente assunto le forme di un tentativo di una ever closer union ma a “geometria variabile”, con un numeroso gruppo di Stati che fanno parte di un’unione monetaria (di cui, però, intendono il significato in modo differente), un altro numeroso gruppo di Stati ha sottoscritto l’accordo di Schengen ma a fronte dell’ondata migratoria lo osserva in vario modo, che i tentativi di una politica industriale europea siano di fatto falliti e quelli di una politica europea per le grandi infrastrutture vengano portati avanti con poca convinzione ed energia.
Tuttavia, in questa “geometria variabile” sta prendendo configurazione la visione di un’Europa del futuro caratterizzata più che da cerchi concentrici da due gruppi: uno incentrato sulla Repubblica Federale Tedesca e gli Stati nordici, nonché alcuni dell’Europa orientale membri dell’Ue, e uno essenzialmente mediterraneo. I due gruppi potrebbero essere collegati dallo spazio economico europeo (per il commercio) e da accordi monetari. In uno, la moneta potrebbe essere un euro “aureo” rivalutato rispetto all’attuale e nell’altro un euro “argenteo” al tasso di cambio attuale rispetto al dollaro, allo yuan e allo yen, ma inferiore all’euro “aureo”. La rivalutazione del cambio risolverebbe anche il nodo del surplus commerciale della Repubblica Federale Tedesca. Per l’Italia si pone un difficile problema di scelta: di quale dei due gruppi fare parte.
Si potrebbe pensare che l’Italia, come Stato “fondatore” dell’Ue, farebbe naturalmente – naturaliter, direbbero i tedeschi – parte del primo gruppo caratterizzato da un euro “aureo” (anche perché essere nel secondo gruppo comporterebbe un deprezzamento dei redditi fissi, principalmente degli statali e dei pensionati). Tuttavia, la soluzione è tutt’altro che semplice in quanto, dopo oltre 150 anni dall’Unità, l’Italia appare sempre più spaccata in due con un Mezzogiorno il cui tessuto economico, già a bassa produttività e basso reddito, è stato fortemente compromesso dalla crisi iniziata nel 2007 (come ci ricordano ogni anno i Rapporti Svimez).
Già ai tempi del negoziato del trattato di Maastricht, Giuliano Amato, che aveva appena completato uno studio approfondito sul Mezzogiorno per conto del Parlamento, ha spesso espresso perplessità sul cambio con cui si entrava nell’euro (causato in gran misura da un’improvvida decisione di Tesoro e Bankitalia del novembre 1989): avrebbe aggravato il divario tra le “due Italie” (com’è in effetti avvenuto). È poco educato citare se stessi: in un saggio pubblicato da La Rivista di Politica Economica negli anni Novanta, delineavo le politiche da attuare per mitigare questi effetti, ma nessuna di esse è stata adottata.
Occorre, poi, chiedersi se corrisponde al vero che gli italiani vogliono fare parte del “cerchio aureo”. Il 18 aprile al Senato è stato presentato un libro dell’ex Ministro del Mezzogiorno Claudio Signorile (“Un’Italia capovolta”, Rubettino 2016), il quale, prima di iniziare la carriera politica, ha avuto una carriera accademica di vaglia come storico del Risorgimento, in cui si sostiene la necessità di un cambio di prospettiva in linea con la centralità dell’Italia nel Mediterraneo e nella “meridionalità” dello stesso Cavour. Le continue richieste di flessibilità da parte del Governo in carica sono anche esse segno di meridionalità. La discussione è aperta.