Una nuova giornata di tregenda per le banche italiane in Borsa, con lo spread che s’innervosisce fino a quota 130, offre l’occasione sicura per rispolverare il titolo cubitale con cui il Sole 24 Ore incoraggiò nel novembre 2011 la conclusione del “minigolpe” europeo contro Silvio Bedrlusconi e il commissariamento tecnocratico del Paese con Mario Monti.
Allora cacciare un premier ormai totalmente unfit a governare un Paese allo sbando e sotto pesante attacco politico-speculativo servì a far scendere la febbre-spread da quota 575. A rigore anche nell’aprile 2016 andrebbe opportunamente verificato se il problema ultimo non sia un governo che – nell’ultimo semestre – non ha indovinato una mossa sullo scacchiere bancario, aggravando con la propria inadeguatezza la situazione della più importante infrastruttura del sistema-Paese. Che differenza c’è, alla fine, fra il volo dello spread nell’estate 2011 e il crollo – ad esempio – del Banco Popolare (un terzo) e di Bpm al listino dopo il progetto di fusione annunciato quasi per decreto dal governo contro i dubbi della Bce?
Anche ieri è stata una giornata di frustrante paralisi, a due giorni dall’ennesimo super-vertice di Palazzo Chigi: le cui conclusioni – secondo fonti citate dalla Reuters – dovrebbe partorire soluzioni operative entro lunedì. Ma giovedì sera tutto sembra ancora in alto mare o quasi. Continua a non essere chiaro quale struttura avrà il veicolo salva-banche, quali soci, quanti capitali a disposizione, quale strategia: acquistare sofferenza bancarie o sottoscrivere nuove azioni di banche da ricapitalizzare? Quante, come, con quali priorità? Con che ruolo per il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti, sempre osservata speciale delle autorità europee? Con quale regia per la Banca d’Italia di Ignazio Visco?
E a proposito dell’interfaccia Italia-Bce, i segnali giunti ieri sono stati ben poco incoraggianti. L’aumento di capitale da 1,75 miliardi messo in cantiere dalla Popolare di Vicenza – il dossier italiano più urgente – ha ottenuto 10 giorni di proroga dalla Bce. Un’apertura minima, segno che alla vigilanza di Francoforte – affidata alla francese Danièle Nouy – la pazienza è ormai ridotta con le banche italiane: soprattutto dopo la forzatura del governo italiano sul piano Banco-Bpm. Negli intenti la notizia avrebbe forse dovuto allentare la pressione della Borsa su UniCredit, la banca chiamata a garantire l’aumento della Vicenza, in agenda formalmente entro il 30 aprile. Invece la non-gestione sia della situazione che della comunicazione hanno fatto acceso ancora più i fari su una realtà sempre più preoccupante: l’aumento della Vicenza sta incontrando difficoltà superiori al previsto (anche per l’annuncio dell’aumento del Banco Popolare, provocato dalla forzatura del governo sulla fusione Bpm) e UniCredit ha valutato negli ultimi giorni la possibilità di sganciarsi dalla garanzia per non appesantire il suo bilancio.
Il risultato è quindi che i mercati stanno punendo la prima banca italiana, stanno lesinando o disdettando le prenotazioni per l’aumento Vicenza, stanno mettendo in seria discussione il piano Banco-Bpm, stanno perdendo la pazienza per un governo italiano ormai al panico e al massimo dell’inefficienza nella gestione della crisi creditizia.
Nel frattempo non sono pochi i protagonisti e gli osservatori che – fra l’imbarazzato e il rassegnato – notano come il “grande progetto” proposto del governo ai capi di banche e fondazioni non sia alla fine molto più di una scopiazzatura affannata del “piano Apollo” per Carige. E il confronto è già spietato: un governo attorniato dall’intero establishment bancario nazionale non riesce a mettere a punto una proposta credibile e completa di cifre (cioè di capitali vesi) come quella da 1 miliardo messa sul tavolo già una decina di giorni fa da un singolo fondo privato. Una proposta ferma per sofferenze e capitale di una singola banca, ma estendibile alle quattro banche “risolte” che l’Italia deve vendere entro il 30 settembre.
E se in Italia il governo – il governo Renzi – “si dimettesse” da gestore fallimentare della politica creditizia e lasciasse “fare al mercato”? Lasciasse, a questo punto, che singole banche e singole fondazioni gestissero singoli progetti di salvataggio. Quelli possibili, alle condizioni possibili. Meglio eventualmente altre “risoluzioni” – ma stavolta ben gestite – che i tentativi – patetici e invariabilmente malgestiti – di evitare le risoluzioni chiedendo dalla Bce l’inutile elemosina di altri dieci giorni.