DEF 2016. Ieri, il Consiglio dei ministri ha varato il Documento di economia e finanza (Def), che contiene le tabelle su cui si baserà la prossima Legge di stabilità. Per il Governo il Pil nel 2016 crescerà dell’1,2% (+1,4% nel 2017). Il deficit/Pil quest’anno scenderà al 2,3% per passare poi all’1,8% nel prossimo, incorporando quindi uno 0,7% di flessibilità, che l’esecutivo conta di far approvare da Bruxelles. Per il ministro Padoan “la crescita accelera in buona parte trainata dall’effetto delle misure del governo e si accompagna al miglioramento continuo delle finanze pubbliche sia in termini di deficit che di debito”. Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, evidenzia però che «il governo ha perso l’occasione dello spiraglio che si era aperto nella domanda interna nel 2015. Intervenire adesso, anche con misure giuste, rischia di essere troppo tardi». E anche per questo le previsioni governative sul Pil gli sembrano un po’ troppo ottimistiche.



Nel Def sono contenute le previsioni sul futuro dell’economia italiana, ma ultimamente i governi le hanno sempre sbagliate. Che senso hanno queste nuove previsioni?

I numeri del Def presentano un errore di previsione composto da due sottoerrori. Il primo nasce dalla difficoltà nel prevedere oggi che cosa avverrà nel 2017. Il secondo è che i numeri contenuti nel Def non sono propriamente delle previsioni bensì dei programmi. Esiste un valore tendenziale a parità di condizioni esterne. Il compito del governo è dire quale direzione intende imprimere. Se quelle grandezze non sono quelle desiderate, occorre fare qualcosa.



Che cosa?

Se il risultato previsto non si raggiunge in modo spontaneo, si dovrebbero mettere in opera delle manovre con i correlati impegni di politica economica, tali per cui si arriva a perseguire quell’obiettivo. Gli errori sono la conseguenza di previsioni un po’ ottimistiche e di azioni di politica economica inadeguate. Dipendono quindi in parte dalle difficoltà esterne a livello economico, ma anche dalla maggiore o minore capacità economica del governo.

Lei che cosa teme di più in questo momento?

Temo i rischi legati al credito. Il problema centrale delle banche sono le sofferenze e la loro valutazione contabile, se e quando saranno recuperate. Ma non bisogna dimenticare che queste sofferenze si sono ingigantite a causa della crisi.



Il Governo ritiene che il Pil nel 2016 crescerà dell1,2%. Secondo l’Istat, però, nel primo trimestre laumento del Pil sarà verosimilmente pari allo 0,1%, ancor meno dello 0,4% del primo trimestre 2015…

Esiste sicuramente un effetto stagionale, che nel corso del 2015 sembra quasi avere operato alla rovescia. Un po’ di cautela è quindi necessaria. Se la previsione di crescita per il primo trimestre 2016 è dello 0,1%, rispetto allo 0,4% del primo trimestre 2015, stiamo già partendo con un passo più lento. Anche sulla base del quadro generale, che Draghi ha confermato giovedì, la strada è in salita.

E quindi?

Quindi nel corso del 2016 ci sarà un segno positivo, ma sarebbe uno straordinario successo se si arrivasse vicino al +1%.

 

Il governo Renzi ha annunciato che ridurrà la pressione fiscale. In che modo ritiene che vadano impiegate le risorse per il taglio delle tasse?

La strada giusta era ridare respiro e solidità alla domanda interna. Se oggi abbiamo così tante sofferenze nelle banche è perché l’economia e in particolare quella interna è andata in crisi. Ciò ha portato a concedere crediti una parte dei quali non si rivedranno più. La valutazione dei cosiddetti “non performing loan” (crediti deteriorati, Ndr) nell’ipotesi più generosa è intorno al 40% del loro valore nominale, ma adesso sul mercato si sta trattando al 20%. Si tratta di una perdita ingente, perché si parla di una cifra intorno ai 200 miliardi di euro.

 

Dunque quale tassa bisogna tagliare per rilanciare la domanda interna?

Il punto è che fare tardi quello che non si è fatto prima sarà certamente molto più impegnativo e faticoso. Il piccolo spiraglio che si è aperto l’anno scorso nella crescita viene dalla domanda interna. Quel filo di vento favorevole adesso andrebbe decisamente rafforzato.

 

In che modo?

Ci sono ambiti e settori nei consumi delle famiglie che hanno sofferto più di altri. Ci sono situazioni di precarietà che si sono accentuate. L’idea del governo era quella di favorire una trasformazione del processo produttivo, e quindi anche del mercato del lavoro, dimenticando però alcuni problemi strutturali senza risolvere i quali non si va da nessuna parte. Il primo di questi problemi è la disoccupazione giovanile, che non si cura certo mandando in pensione dopo le persone o proponendo loro un assegno ridotto se ci vanno prima. Questa è una vera e propria riduzione anche del potere d’acquisto dei pensionati.

 

(Pietro Vernizzi)