Altro che festa del lavoro, oggi rischia di essere l’anniversario del lavoro perduto e non ritrovato. È stata accolta con una certa soddisfazione la notizia che il tasso di disoccupazione a marzo è sceso all’11,4% tornando al livello registrato nel 2012 e che sono aumentati anche gli occupati compensando così la caduta del mese precedente. Ma la verità è che il mercato del lavoro, nonostante gli incentivi alle assunzioni e il Jobs Act, è ben lontano dal recuperare i livelli pre-crisi. Non può certo consolare il fatto che nell’intera eurozona il tasso di disoccupazione sia ancora del 10,2% e solo adesso s’avvia a scendere sotto il minimo raggiunto nel 2011. La zona euro nel suo insieme ha impiegato otto anni a colmare la voragine creata a partire dalla grande crisi finanziaria. L’Italia, invece, resta indietro, vagone di coda di un treno della crescita che procede a fatica, condotto da una locomotiva a vapore.



Nel primo trimestre dell’anno, l’Eurolandia è cresciuta dello 0,6%, un ritmo doppio rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno, ma siamo sempre a zero virgola. La Spagna è la più dinamica, l’Italia la più lenta. Il dato peggiore viene dai prezzi, perché nonostante le iniezioni di moneta da parte della Banca centrale europea siamo pressoché ovunque in deflazione, sotto zero in Italia (-0,4% in aprile) e anche in Germania. Dunque, non ha torto Susanna Camusso nel dire che “non sta cambiando niente”. E Marco Leonardi, neoconsigliere di palazzo Chigi, ammette che “la ripresa è incerta”, anche se per onor di firma aggiunge che “le misure del governo stanno funzionando”. Tutti speriamo che sia così, la speranza è una virtù, ma la ragione getta acqua sul fuoco degli entusiasmi.



Il Documento di economia e finanza appena varato, del resto, non delinea certo una svolta. Intanto ha dovuto ridimensionare il tasso di crescita previsto e c’è il rischio che debba scendere ancora se ha ragione il Fondo monetario internazionale che vede per quest’anno un aumento del prodotto lordo di appena un punto. E poi ancora una volta la politica economica è impostata su un concetto semplice quanto pericoloso: prendere tempo, spostare in avanti di un altro anno l’aumento delle imposte indirette, rinviando l’aggiustamento fiscale e la riduzione del debito. Guadagnare tempo può anche essere la tattica giusta in momenti di emergenza, ma rischia di diventare disastroso in condizioni normali.



Oggi c’è una finestra di opportunità, aperta dalla politica espansiva della Bce che durerà fino al prossimo marzo. Tra l’altro non sono state ancora messe in atto alcune misure già decise come l’acquisto di obbligazioni societarie e i nuovi finanziamenti alle banche mirati all’aumento del credito all’economia. Ebbene, è il momento di approfittarne, di dare un’accelerata.

La debolezza dell’Italia è rispecchiata in un dato di fondo: dal 2000 al 2015 il costo del lavoro per un’unità di prodotto è aumentato del 40% rispetto alla Germania. Ciò spiega il gap di competitività tra i due paesi al netto delle differenze strutturali. Renzi non ha inciso su questo divario. Il mercato del lavoro era già stato riformato dalla Germania tredici anni fa lungo linee non dissimili a quelle del Jobs Act. Le altre riforme strutturali sono allo stadio embrionale. In ogni caso nessuna di loro, dalla Pubblica amministrazione alla giustizia (di là da venire), cambia l’abisso del costo del lavoro per unità di prodotto che non è provocato dai salari (in Germania restano più alti e sono tornati a crescere), ma dal peso del fisco e degli oneri sociali.

Gira e rigira la questione chiave della politica economica italiana resta il peso delle tasse sul reddito e in particolare sul lavoro. Anno dopo anno la distanza è cresciuta. Finché le imprese hanno potuto contare sul rilancio della domanda estera, hanno compensato i costi, soprattutto da quando la Bce ha indotto una svalutazione dell’euro. Adesso che il commercio internazionale ristagna, le magagne sono venute a galla.

Nel bollettino congiunturale di aprile, l’Istat accende un faro sulla “difficile ripresa degli investimenti”. E scrive che “nel complesso la contrazione degli investimenti italiani nel periodo di crisi è stata marcatamente superiore a quella degli altri paesi europei. Ponendo a 100 la media degli investimenti bel 2011, alla fine del 2015 la Germania e la Spagna mostravano livelli superiori, la Francia oscillava a livello cento, l’Italia era a 85”. È chiaro a questo punto che “il rafforzamento della ripresa italiana è indissolubilmente legato a una crescita duratura degli investimenti”. Ebbene è proprio questo che manca.

Gli imprenditori manifatturieri sostengono che non c’è abbastanza domanda interna per giustificare un nuovo ciclo di investimenti, nonostante il super ammortamento contenuto nella Legge di stabilità. È un altro gap che s’aggiunge a quello della competitività, perché nel frattempo la Germania ha aumentato la domanda interna, magari non abbastanza secondo i critici a cominciare da quelli del Fondo monetario internazionale, ma in ogni caso si è mossa nella giusta direzione. In Italia in molti, a cominciare dai sindacati, chiedono che gli investimenti pubblici suppliscano alla carenza di quelli privati, o quanto meno facciano da stimolo, da moltiplicatore. Nel bilancio dello Stato non c’è spazio. L’Italia, insieme alla Francia e al Regno Unito, è tra i maggiori beneficiari del piano Juncker nei settori dei trasporti e dell’innovazione. Ma ancora non si vede la luce in fondo al tunnel. La decisione più importante riguarda il progetto banda ultra-larga per il quale ci sono stanziamenti sulla carta. Tuttavia finora è bloccato dal braccio di ferro di Telecom Italia e dalle incertezze sulle effettive possibilità di intervento della Cassa depositi e prestiti.

Sarebbe il caso che Renzi convocasse una sorta di Stati generali dell’economia, con al centro la politica di rilancio degli investimenti, chiamando a raccolta tutti i soggetti, le imprese privare e quelle pubbliche, i sindacati e le organizzazioni professionali, e mettendo tutti di fronte alle proprie responsabilità. L’incertezza non può essere un alibi, al contrario rappresenta lo scenario normale nel quale si svolge la recita dell’economia. E il rischio è la condizione stessa del capitalismo privato. Il governo non potrà presentarsi a mani vuote, non bastano certo un po’ di chiacchiere e di promesse. Ma, pur tenendo conto del sentiero molto stretto sul quale cammina la politica fiscale, dovrà mettere sul tavolo una seria, credibile e permanente riduzione delle imposte.

Consigli non richiesti (più lunghi di un tweet, dimensione alla quale Renzi ormai si è abituato) e soprattutto non ascoltati.