Un enorme, fragoroso, vibrante: “E con ciò?” sembra aver accolto la nuova – e ultima – puntata del “Panama Papers”, lo scandalo giornalistico più promettente e meno “mantenente” degli ultimi dieci anni, dopo Wikileaks. Cioè: da una manciata di ore è pubblico, on-line, il database e il relativo motore di ricerca che permette l’accesso ai documenti relativi a 214mila compagnie offshore create in 21 diversi paradisi diversi – da Panama alle Isole Vergini, a Hong Kong allo stato americano del Nevada – e ai nomi delle 360mila persone o società in 200 paesi diversi che le controllano.



L’ha pubblicato il consorzio internazionale per il giornalismo investigativo (Icij) cui va il merito – perché, intendiamoci, resta comunque un merito – di aver scovato il malloppo. Un altro paio di dettagli: questi dati sono una minima parte degli 11 milioni di file che erano stati sottratti allo studio legale Mossack Fonseca di Panama (uno dei primi cinque al mondo, si dice, per attività finanziarie riservate) e consegnati al giornale tedesco Suddeutsche Zeitung, che poi aveva scelto di lavorarci in pool con altri. I dati riguardano 40 anni di attività, dal 1977 alla fine del 2015. 



Perché lo scandalo, dopo aver prodotto nell’immediato un po’ di scossoni (si sono dimessi un ministro spagnolo e il premier islandese, coinvolti nelle liste) è sembrato sgonfiarsi, né in queste prime ore sembra in grado di rinfocolarlo la pubblicazione di tutta la documentazione? Ovvero: perché nei primissimi giorni successivi alle rivelazioni, la Bbc ha parlato di 72 attuali o ex capi di Stato coinvolti, tra cui Putin, membri della famiglia del premier britannico David Cameron, il premier cinese Li Peng e il presidente siriano Assad, e dopo poco più di un mese nemmeno la pubblicazione integrale dell’archivio sembra avere il potenziale per scuotere il sistema? Oh bella! Perché è un sistema che funziona!



Il principio – ovvio, ma sfumato nei titoli dei primi giorni più “emotivi” – è che tenere soldi all’estero, in uno dei 21 paradisi fiscali gestiti dallo studio Massak Fonseca, non è necessariamente un reato: dipende, naturalmente, dalla legislazione fiscale in vigore nel Paese di residenza della società o del personaggio che li detiene. È vero che la scelta di depositare i propri soldi in un paradiso fiscale rischia di accomunare un onesto dentista di Bassano a un boss della mafia colombiana, ma è anche vero che se la moglie di quel dentista fa la spesa nello stesso supermercato dove va la moglie del boss non è per questo imputabile di favoreggiamento della mafia: se il dentista i soldi li ha esportati all’estero dopo averci pagato le tasse perché ha la fobia dei sequestri o delle rapine in villa, non è colpevole di niente.

Peraltro, l’enormità dei reperti e la loro datazione anche molto remota rende oggettivamente a dir poco improbo il lavoro di ricostruzione e inchiesta: se e quando qualcuno ci si applicherà, ci impiegherà anni. Un esempio dell’enorme difficoltà che comporta l’esaminare e classificare la messe dei dati di Panama si ritrova anche nell’esito nullo delle due o tre “notizione” italiane emerse nell’immediato: quelle relative ad esempio a Luca di Montezemolo, Carlo Verdone e Oscar Rovelli, uno degli eredi del famigerato Nino. A parte le smentite degli interessati, al momento nessuno è stato in grado di affermare con precisione se quei nomi risultavano davvero, e soprattutto perché, negli archivi di quello studio. Si arriverà mai, sul punto, a un chiarimento? Lecito dubitarne.

Più in generale, però, un “merito” culturale Panama Papers ce l’ha, e consiste nell’aver fatto emergere – questo sì al di là di ogni ragionevole dubbio – che esiste nel mondo un sistema fortissimo e fittissimo di opacizzazione della ricchezza. Al di là delle generalizzate ipocrisie politiche vigenti in tutti i Paesi democratici sulla trasparenza di redditi e patrimoni, presupposto logico di ogni possibile equità sociale e fiscale, chi vuole nascondere i suoi beni al fisco e all’opinione pubblica ha l’imbarazzo della scelta su come farlo.

Pensiamo per un attimo alla cosiddetta “nazione-guida” del mondo, gli Stati Uniti. All’interno dei loro confini, almeno due stati – due stelle della bandiera! -, cioè Nevada e Delaware, sono paradisi fiscali in piena regola. Coi fiocchi. Dunque gli stessi Stati Uniti, quelli che hanno dato il via al pressing sulla Svizzera, costringendo Berna al “desclosing” del segreto bancario, imitati poi dalla Germania, dalla Francia e dall’Italia, sono in realtà maestri nello stesso mestiere. Peraltro, se il sistema bancario svizzero – a distanza ormai di un paio d’anni dall’inizio del deflusso di depositi verso le varie “voluntary desclosures” verificatesi nel mondo – non sembra in affanno, lo si deve al fatto che quei patrimoni emigrati (o meglio reimpatriati nei Paesi d’origine) sono stati più che adeguatamente rimpiazzati da altri, ben altri, provenienti da Stati pieni di soggetti ricchissimi desiderosi di occultare la loro ricchezza: Russia, Cina, Brasile, India, Emirati Arabi, Indonesia, Sudafrica, eccetera. Stati peraltro a loro volta opaci se non opacissimi.

Ben vengano, quindi, i Panama Papers: ma non è con questa “pesca a strascico” che si può moralizzare un mondo profondamente basato sull’opacità. Al contrario: si può legittimamente pensare che mai come in questa fase storica la fabbrica dei segreti sia stata florida, nel mondo.