«La politica economica a deficit del governo Renzi si è concretizzata in un gigantesco trasferimento di risorse pubbliche alle imprese che non ha rilanciato né il potere d’acquisto delle famiglie, né la stessa occupazione». Lo spiega Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nei giorni scorsi c’è stato uno scambio di lettere tra il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e la Commissione Ue. Da Bruxelles è stato fatto notare che l’Italia non ha fatto abbastanza per ridurre il debito. Padoan ha risposto con un documento di 80 pagine nel quale si elencano 11 “fattori rilevanti” che il governo chiede di tenere conto nel valutare il nostro debito pubblico. Tra gli altri ci sono il costo dell’immigrazione, la deflazione, la metodologia di calcolo dei bilanci che penalizza il nostro Paese e le riforme strutturali.



Professore, secondo lei sul debito ha ragione Padoan o la Commissione Ue?

Dopo numerosi anni di politica di austerità e di riforme strutturali permanenti, i risultati sono molto modesti in termini di occupazione e di crescita. È quindi evidente che qualcosa non va nella politica economica attuata finora. La posizione di Bruxelles ricorda molto atteggiamenti analoghi da parte dei governi europei e americani all’inizio degli anni ’30.



In che senso?

In quel frangente il mondo era in crisi, c’era la necessità di restituire respiro alla domanda mondiale e tutte le economie erano entrate in una situazione di grande rallentamento e deflazione. La posizione di gran parte dei governi per numerosi anni fu quella di adottare politiche di rigore, nella convinzione che se non c’era la ripresa voleva dire che non era stato fatto abbastanza rigore. È come se Bruxelles dicesse all’Italia: “La politica di austerità non ha portato crescita e quindi significa che bisogna fare ancora più austerità”. Questo è il sillogismo della definitiva rovina. In questo modo rischiamo davvero di avvitarci in una situazione da cui non solo non usciremo ma che ci porterà verso una situazione molto negativa.



Quali pericoli corre l’Europa se continua su questa strada?

L’Europa a poco a poco si sta sgretolando. Se anche si dovesse materializzare soltanto uno dei rischi che si affacciano con Grecia e Gran Bretagna gli effetti rischiano di essere pesanti. A ciò si aggiunge la questione migratoria.

È un’emergenza che durerà ancora a lungo?

L’immigrazione non è una situazione emergenziale, bensì strutturale. Abbiamo un’Europa vecchia e ricca che convive nella stessa area mediterranea con un Nord Africa molto giovane, ma che nel frattempo non ha fatto abbastanza passi in avanti e per di più è attraversato da guerre. In questo quadro l’unica vera soluzione per tenere unita l’Europa è lo sviluppo.

Perché le misure a deficit del governo italiano finora non sono state sufficienti per rilanciare la crescita?

Perché la politica economica adottata dal governo italiano si è concretizzata in un gigantesco trasferimento di risorse pubbliche alle imprese. Quelle che esportano sono riuscite a ottenere qualche risultato, ma probabilmente sarebbero riuscite anche senza queste misure. Le aziende che operano sul mercato interno hanno invece rimpinguato con i fondi pubblici bilanci altrimenti anemici, in quanto il potere d’acquisto delle famiglie è drasticamente diminuito.

 

Con quali conseguenze?

Una caduta così forte del potere d’acquisto, soprattutto da parte delle famiglie con figli, rischia di mettere in ginocchio il Paese. Anziché ridare respiro a queste categorie sociali, si sono date risorse alle imprese. Queste ultime hanno gradito il regalo, ma poi non assumono davvero perché il mercato è diventato più piccolo.

 

Se le misure del governo non sono adeguate, allora come si esce dalla spirale del debito?

La spirale del debito non esiste, il vero problema dell’Italia è la mancanza di crescita. La Germania ha un debito pubblico più o meno uguale a quello italiano, la differenza è che i tedeschi hanno attraversato la crisi economica senza danni. Il rapporto debito/Pil di Berlino è leggermente diminuito, mentre in Italia dal 99,7% è schizzato al 130%.

 

(Pietro Vernizzi)