Ormai siamo al delirio più assoluto e totale. Mercoledì la Spagna ha emesso un bond sovrano a 50 anni per un controvalore di 3 miliardi di euro, pagando un rendimento del 3,49% e con richieste tre volte superiori all’offerta, tanto che l’orderbook si è chiuso a quota 10,5 miliardi di euro. Stiamo parlando di un bond con rating Baa2/BBB+/BBB+ e di un Paese che non più tardi di quattro anni fa ha visto il suo sistema bancario salvato dal collasso con soldi europei. Ringraziate Mario Draghi per questo delirio di cui poi pagheremo il conto, visto che oggi metà del debito sovrano dell’eurozona ha rendimento negativo. Il tutto, però, al netto di quanto rappresentato nel primo grafico a fondo pagina, ovvero il fatto che lo STOXX Europe 600 non stia affatto beneficiando del Qe della Bce e il set-up attuale è simile a quelli di inizio 2001 e inizio 2008 con un’importante resistenza a 350 e un importante supporto a 300.
Attenti, qualcosa sta arrivando. Gli indizi ci sono tutti, visto che i clienti di Bank of America-Merrill Lynch anche la scorsa settimana hanno venduto titoli con il badile, per l’esattezza un controvalore di 1,3 miliardi di dollari. Si tratta della quindicesima settimana consecutiva in cui la smart money è venditrice netta di equities, record assoluto visto che la striscia precedente più lunga era di 12 settimane sul finire del 2010. Ma non basta, perché martedì scorso Carl Icahn, investitore a dir poco mitologico, dopo aver scaricato tutte le sue detenzioni di titoli Apple, ora si è posto vagamente short rispetto alle aspettative dei corsi azionari. Se infatti al 31 dicembre 2015 la sua posizione netta corta era di un modesto 25%, ora siamo a un 149% che non ha precedenti.
Il problema è che al possibile tonfo delle Borse si uniscono altre due criticità: la ricetta monetaria completamente sbagliata delle Banche centrali e il ritorno in deflazione dell’Europa, la cui ripresa è oramai svanita. Einstein definiva la stupidità il fare la stessa cosa in continuazione e aspettarsi un risultato diverso e mi pare che sia perfettamente applicabile a quanto si sta facendo con i tassi di interesse negativi, ultima follia keynesiana messa in atto da poco da Bce e Bank of Japan, ma che, invece, è realtà da ormai quattro anni in Danimarca. Con quali risultati? Ce lo dice il secondo grafico, il quale ci mostra come l’inflazione non abbia fatto altro che collassare, invece che salire e portarsi in area 2% come obiettivo. Chissà che Mario Draghi ne voglia prendere atto, prima di sfruttare l’eliminazione delle banconote da 500 euro per andare invece ancora di più in negativo.
L’ultimo dato sull’indice dei prezzi al consumo danese, infatti, parla chiaro: ad aprile è rimasto invariato su base annua per il secondo mese di fila, mentre su base mensile è cresciuto ben al di sotto delle attese, solo 0,1% in più rispetto a marzo. Insomma, la relazione tra tassi e prezzi è rotta. E veniamo alla famosa ripresa, garantita a detta dai grandi media dalle geniali intuizioni di Mario Draghi e soci. Dunque, a marzo la produzione industriale è scesa dell’1,3% in Germania e dello 0,3% in Francia a seguito dello stallo pressoché totale del comparto manifatturiero, questo in pieno contrasto con le sirene di robusta espansione di fine 2015. E signori miei, per il primo trimestre di quest’anno le previsioni di crescita erano allo 0,6% per l’Europa, non al 3% e nonostante questo si sono rivelate troppo ottimistiche e subiranno certamente una revisione al ribasso.
A confermarlo è anche Lars Christensen di Markets&Money, a detta del quale «la ripresa in Europa non sta guadagnando trazione e la cosa che mi spaventa di più è la possibilità di un nuovo spasmo della crisi del debito durante l’estate. I mercati cominciano a perdere fiducia nella Bce e nella sua capacità di generare stimolo e stiamo cominciando a vedere il ritorno dei problemi nelle finanze pubbliche di Italia, Spagna e Portogallo. E quest’ultima criticità sta diventando un argomento chiave». E a porre seriamente in discussione quanto fatto finora ci ha pensato anche un pezzo da novanta come Nouriel Roubini della New York University: «Per tutto lo scorso anno l’eurozona ha goduto di condizioni molto favorevoli, petrolio a basso costo, gli acquisti di bond della Bce, il deprezzamento dell’euro e la fine dell’austerity fiscale. Potremmo dire che era al centro di una tempesta di positività perfetta. Ma se anche questo non ha prodotto crescita, nulla potrà farlo». E quelle condizioni, ancorché lentamente, stanno sparendo. Il petrolio è salito di prezzo del 75% dall’inizio di febbraio e l’indice dell’euro è salito del 5% negli ultimi sei mesi, trovandosi ora a un livello più alto di quando la Bce ha lanciato il Quantitative easing.
Per Marchel Alexandrovich della Jefferies «la Bce finora ha fallito nel costruire un cuscinetto contro gli shock deflazionari e ciò che colpisce è che l’inflazione nei servizi ha viaggiato a solo lo 0,2% negli ultimi sei mesi. Siamo davvero vicini alla deflazione. In superficie lo cose sembrano ancora reggere, ma la gente potrebbe stare sottostimando il deterioramento sottostante. A mio avviso, ciò che serve è un grande progetto di spesa in infrastrutture, monetizzato dal Qe». E c’è anche chi comincia a pensare che quanto proposto da Yanis Varoufakis, ovvero finanziare la spesa in investimento con bond emessi dalla European Investment Bank e che poi sarebbero acquistati dalla Bce, non fosse poi una follia: questo, di per sé, dovrebbe farvi capire a che punto siamo arrivati.
Per il professore Paul de Grauwe della London School of Economics, «il Qe potrebbe tenere lontano il lupo cattivo della ciclicità anche per un anno, ma questa non è una soluzione in sé, perché non è sufficiente per sostenere la crescita. Serve un’espansione degli investimenti tra il 2% e il 3% del Pil e potendo ottenere denaro a prezzi così bassi, ha senso provarci. Ma solo parlarne è eresia, molta gente, tedeschi in testa, pensano che un’idea simile sia diabolica». Lo stesso vice-presidente della Bce, Vitor Constancio, la scorsa settimana ha detto chiaramente che le Banche centrali non possono risolvere tutti i problemi e ha chiesto «politiche fiscali dirette verso la crescita e accompagnate da riforme che mantengano in vita la fragile crescita attuale». Tradotto? Flessibilità, quella che però viene bocciata e negata ad ogni piè sospinto in sede europea.
Anche perché l’economia mondiale nel suo insieme è preda di forze secolari che hanno abbassato e di molto i tassi di crescita a lungo termine, rendendo ancora più difficile superare l’ubriacatura deflazionistica dell’enorme carico di debito accumulato dal 2009 a oggi. E anche i Paesi che vengono celebrati come esempi della bontà dell’azione della Troika, come la Spagna, potrebbero ritrovarsi in fretta nel mirino dei mercati.
Ecco cosa pensa al riguardo Raoul Ruparel di Open Europe: «Il mini-boom spagnolo è solo apparente e basato su un’esplosione di spese per consumi da parte di cittadini di fascia alta che non può durare. Le aziende, infatti, sono ancora pesantemente indebitate e non stanno investendo. Non vedo affatto questa ripresa iberica come sostenibile». C’è poi l’enorme tallone d’Achille per le nazioni della cosiddetta periferia, ovvero il nesso inestricabile tra debito sovrano e sue detenzioni in mano alle banche, un qualcosa che pochi giorni fa è stato sottolineato anche da Jean Pisai-Ferry, commissario generale per la Pianificazione politica francese: «I debiti sovrani sono ancora esposti al rischio catastrofico di dover sostenere il costo di un salvataggio del sistema bancario. Ciò che importa ai mercati, infatti, è solo capire chi sopporterà alla fine quel rischio».
E al riguardo, l’Italia ha una criticità in più. Il grafico a fondo pagina ci mostra infatti cosa sta accadendo all’interno dei conti del nostro Paese. Una nuova fonte di flussi di capitale è emersa e pare essere il driver primario del bilancio netto negativo dell’Italia in Target2, sprofondato a marzo di quest’anno al suo livello di deficit peggiore di sempre, -263 miliardi di euro: uno scostamento netto del settore privato non bancario del nostro Paese dal debito governativo e delle banche italiane verso titoli azionari esteri e mutual funds.
Facendo attenzione al grafico, si nota che fino al giugno 2014 il bilancio netto di Target2 (linea blu) è stato influenzato unicamente dalla sell-off e dal conseguente riacquisto di obbligazioni sovrane del nostro Paese (la linea verde). Ma a partire da quel momento, è altro che muove al ribasso quella linea blu, ovvero sono gli investimenti del settore non bancario italiano (linea rossa) a giocare un ruolo più ampio nel portare in negativo il nostro bilancio di Target2. Di più, negli ultimi mesi il calo può essere anche attribuito a una rinnovata, ancorché moderata per ora, fuga dai nostri titoli di Stato, dinamica che spiegherebbe il continuo, anche se per ora lento, aumento del nostro spread sovrano sul Bund.
Dall’inizio di quest’anno, oltre 180 miliardi sono spostati dall’Italia verso mutual funds in Lussemburgo, Olanda e Germania. Solo il 20% di essi può essere fatto risalire a entità italiane (i cosiddetti round trip funds), ma ciò che fa paura è che la ricerca disperata di rendimento all’estero in un ambiente di tassi a zero può spiegare solo in parte questa fuga di capitali italiani verso il Nord Europa, mentre molti analisti parlano di un rinnovato redenomination risk per gli assets italiani, ovvero la percezione di rischio verso l’Italia in caso si arrivasse a un ridenominazione in valuta locale che non sia l’euro dopo una parziale rottura dell’Eurozona. E, certamente, il rischio Brexit e il riesplodere della crisi greca, nonostante l’ottimismo da barzelletta dell’Eurogruppo di lunedì, non potranno che aggravare questa dinamica.
Ma questo scostamento senza precedenti nel portafoglio di investimento delle aziende non bancarie italiane potrebbe avere a che fare anche con altro, ovvero con il rischio bail-in emerso dallo scorso gennaio, visto che questa pratica di risoluzione delle crisi bancarie riguarda, oltre ai privati, anche le aziende medie e piccole, poiché il limite dei 100mila euro di giacenza sul conto per una media azienda è molto risicato, si preferisce spostare la liquidità in porti più sicuri e questo non fa altro che aggravare la situazione del sistema bancario italiano nel suo insieme (come la Borsa ci mostra ormai ogni giorno). Sarà anche per questo che, in base all’ultimo sondaggio Ipsos-Mori, il 60% degli italiani vuole un referendum sulla permanenza nell’Ue e il 48% voterebbe a favore dell’Italiexit. Ma siamo in buona compagnia, perché anche il 58% dei francesi vuole poter decidere e il 41% dice che voterebbero per lasciare l’Ue, mentre in Svezia i favorevoli allo Swexit sono al 39% e in Germania e Spagna vorrebbero andare alle urne il 40% degli interpellati. Non c’è che dire, un vero capolavoro.