Come diventare investitori senza esserlo e, soprattutto, senza volerlo: con qualche ironia potrebbe così, in sintesi, descriversi il bail-in, ossia quell’istituto in forza del quale, oltre agli azionisti, anche gli obbligazionisti e persino i correntisti delle banche vengono espropriati delle somme di cui sono creditori per ridurre le perdite e ricapitalizzare le banche bisognevoli di recuperare la fiducia dei mercati. Che poi si dica, credendo di lenire la pena, che per legge (art. 52, co. 2, lett. b), d.lgs. n. 180/2015 di attuazione della direttiva 2014/59/UE) il bail-in non può portare a risultati peggiori della liquidazione coatta amministrativa o di altre procedure concorsuali non sposta di una virgola il problema.
Non è certo la prima volta che il legislatore provvede nell’interesse pubblico alla conservazione di una tipologia di imprese a spese dei diritti privati dei creditori: occorre però chiedersi a quali condizioni sia legittimo scaricare il soddisfacimento di questo interesse su correntisti che, credendo di mettere in cassetta i propri risparmi, di colpo si vedono trattati come investitori che partecipano al rischio d’impresa della banca cui hanno avuto la sfortuna di rivolgersi E non basta, almeno dal punto di vista giuridico, il ricorso a formule che evocano rischi di sistema: a tacer d’altro, simili formule non spiegano e, anzi, rendono ancor meno comprensibile perché, se la ragione di fondo è legata alla solidità del sistema creditizio, a ciò non si faccia fronte ricorrendo alla fiscalità generale.
D’altra parte, è difficile negare che risponda all’interesse generale anche il regolare adempimento delle obbligazioni, che è elemento essenziale di un’economia di mercato: a maggior ragione, quindi, una tale disciplina giuridica dovrebbe trovare un sicuro fondamento nei principi fondamentali dell’ordinamento. Seguendo, però, un’autorevole insegnamento (F. D’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm. 1984, 53 ss.) si giunge agevolmente a una conclusione esattamente opposta.
È un dato inconfutabile che l’assoggettamento del correntista al bail-in in entrambe le sue forme debba esaminarsi nell’ottica dell’art. 42 Cost.: tanto la riduzione del credito (recte: la riduzione o l’annullamento) quanto la sua conversione in capitale azionario danno infatti luogo a un’ablazione di beni. Ora, è vero che, in forza dell’art. 42, co. 3, Cost., “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale“. Si tratta, allora, di verificare se i pubblici poteri possano usare dell’espropriazione quale che sia il bene da acquisire al patrimonio pubblico o se non vi siano invece limiti ulteriori rispetto a quello espressamente contemplato dalla disposizione costituzionale, ossia la sussistenza di motivi di interesse generale: nella prima ipotesi, lo Stato sarebbe in effetti legittimato anche a reperire danaro espropriandolo ai privati e, come nel caso che ne occupa, ai correntisti della banca.
Ma l’ablazione dei beni viola, com’è noto, il principio di eguaglianza: per tale ragione, in funzione di riequilibrio, è previsto l’indennizzo, ossia la corresponsione di una somma di danaro, il cui ammontare, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, deve attestarsi sul valore di mercato del bene espropriato: si tratta però di un ristoro per equivalente e non di perfetta reintegrazione.
Tuttavia lo Stato e gli altri enti pubblici dispongono di un altro mezzo per acquisire i beni strumentali allo svolgimento di attività di pubblico interesse, ossia il prelievo tributario, che, diversamente dall’espropriazione, è strutturalmente conforme al principio di eguaglianza, come risulta dall’art. 53 Cost. Ne consegue – poiché il principio di uguaglianza entra a comporre l’architrave del vigente ordinamento costituzionale – che dovrà preferirsi l’imposizione fiscale rispetto all’esproprio, al quale ultimo potrà farsi legittimamente ricorso soltanto quando si tratti di acquisire un bene infungibile. La scelta non è, dunque, libera, bensì vincolata. Ed è evidente, allora, che debba escludersi per definizione la legittimità dell’esproprio che abbia a oggetto il danaro, bene fungibile per eccellenza.
Il bail-in è dunque illegittimo, poiché ha per oggetto un credito di somma di danaro. Senza dire che, per di più, alla sua applicazione non corrisponde alcun indennizzo, che del resto svelerebbe il paradosso di tale istituto: acquisire crediti dando in cambio il controvalore in danari. Né l’illegittimità può “in qualche modo” essere scriminata dal vincolo discendente dalla direttiva europea che ha imposto il cosiddetto salvataggio interno, atteso che l’art. 42 Cost., che codifica il “sommo statuto generale dei diritti privati a contenuto patrimoniale” ed è, quindi, “metro universale sul quale misurare ogni norma formalmente o anche solo sostanzialmente ablativa di tali diritti”, rientra tra quei principi supremi evocati dalla nostra Corte costituzionale in funzione di “controlimite” all’adesione dell’Italia all’ordine giuridico europeo.
Ciò è tanto vero che l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dispone che “I trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri“. E in effetti l’art. 42 Cost. è norma essenziale perché, nel vincolare la legge al riconoscimento e alla garanzia della proprietà privata, non si riferisce soltanto e semplicemente all’attribuzione del corrispondente diritto soggettivo, bensì al sistema dei poteri, che è parte essenziale della tutela dell’autonomia dei privati e, quindi, della loro libertà di autodeterminazione. Il bail-in, viceversa, in spregio di tale autonomia converte d’imperio i risparmiatori e, prima ancora, tutti noi che siamo obbligati a depositare danaro negli istituti di credito per poter accedere all’uso di quella “moneta bancaria” il cui utilizzo è oggi non soltanto incentivato, ma imposto dagli ordinamenti statali, in partecipanti al capitale di rischio.
In Austria, la Corte costituzionale, con una decisione del luglio 2015, ha dichiarato costituzionalmente illegittima una normativa che conteneva una forma di bail-in proprio per contrasto con la garanzia costituzionale della proprietà privata. In Italia si levano molte voci critiche, anche dalle istituzioni (il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha parlato del bail-in come “fonte di seri rischi di liquidità e di instabilità finanziaria”), ma senza giungere a risultati concreti, tantomeno in termini di salvaguardia dei diritti costituzionali, proseguendo in una condotta omissiva e lassista che poco giova agli interessi nazionali ed espone il sistema creditizio italiano e, più ancora, il risparmio degli italiani a gravi aggressioni.
Il divieto di ricorso alla fiscalità generale è stato fortemente voluto dalla Germania, la quale, dopo avervi fatto abbondante ricorso proprio per sovvenire alle necessità di banche tedesche (ha scritto Tino Oldani su Italia Oggi del 16/12/2015: “Secondo la relazione al Parlamento di Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza di Bankitalia, prima dell’introduzione del ‘bail-in’ la Germania ha concesso alla proprie banche aiuti di Stato per 238 miliardi (8,2% del Pil tedesco), contro un solo miliardo dell’Italia, interamente restituito. Generosi aiuti di Stato alle banche sono stati elargiti, tra il 2008 e il 2014, anche in Spagna (52 miliardi), Irlanda (42), Grecia (40), Olanda (36), Austria (28), Portogallo (19), Belgio (19). Non solo. Tra il 2008 e il 2014 la Commissione Ue ha adottato oltre 450 autorizzazioni di aiuti pubblici nazionali a favore delle banche, per un ammontare di 3.800 miliardi (29,8% del pil europeo), di cui solo un quarto utilizzati”) si è determinata a proseguire la propria politica egemonica (anche) nei confronti dell’Italia – ancora una volta inerte nel succedersi dei Governi di vario colore, formazione e ispirazione – e del suo cospicuo risparmio privato riuscendo a ottenere il consenso di quel (almeno apparentemente) confuso ed inconcludentemelting pot di interessi al quale sembra essersi ridotta l’Unione europea.
Questo è qualcosa di più e, forse, di peggio di quell’arte di governo neoliberale, evocata qualche mese fa da Oldani su Italia Oggi, che ricorda la gouvernementalité di Michel Foucault. Sembra piuttosto la storia di un sovrano che, di fronte alla tempesta, fugge all’estero con i tesori di corte, lasciandosi dietro un esercito di piccoli risparmiatori, e cioè di piccoli soldati finiti in prima linea in una guerra che non hanno voluto e di cui non si sono neanche accorti, senza fucili e senza scarponi. Era stato detto loro di non preoccuparsi, perché a proteggerli ci sarebbero state la moneta unica e la Bce: fosse successo qualcosa di negativo, sarebbe stato solo perché avevano sprecato il dividendo dell’euro. Appunto. Adesso se la banca fallisce pagano loro. Come dividendo non è male. Resta almeno un quesito: chi se lo mette in tasca quel dividendo?