Le cronache raccontano che Facebook – il più grande social network del mondo, con quasi 1,7 miliardi di utilizzatori – stia per la prima volta segnando il passo nella sua crescita travolgente, ormai non più contrastata da Twitter, avviata a un lento declino nonostante Periscope. Sotto accusa una certa disaffezione del pubblico, sempre più incline a limitarsi guardare i “post” inseriti dagli altri postandone di meno. Ansia per le “auto-schedature” involontarie che si regalano ad amici ma anche a nemici, al datore di lavoro o all’ex fidanzata o a chiunque possa usare contro di noi le foto e le opinioni che postiamo? Forse. Sta di fatto che – secondo il sito americano di high-tech The Information – tra il 2014 e il 2015 i post con testi e foto inseriti sul social sono crollati di oltre il 20%.



Roba grossa, roba grave, a confronto con le ordinarie noie che possono capitare a un colosso, come la mezzora di black-out in Italia occorsa il 17 maggio o le periodiche cause intentate da questo o quel comitato civico per la lentezza nell’eliminare contenuti sessisti o razzisti o simili. C’è una vocazione imperialista ineludibile nei social media, che per ora solo Facebook sembra riuscito ad affermare, quella cioè di essere l’unico maxi “centro commerciale” dove l’iscritto pensi di potersi recare per leggere, scrivere, divertirsi, informarsi, acquistare, piangere e ridere. Una vocazione integralista, meglio ancora, che si traduce in una continua, febbrile proposta di nuovi gadget, nuove iniziative, nuovi scherzetti che però finiscono, chiaramente, con l’elidersi a vicenda, ignari come sono di due fattori determinanti nell’indirizzare i gusti e i costumi: la curiosità e la noia. Per cui qualunque capolavoro e qualunque novità dopo un po’ stufa. E infatti non manca chi dice che se Zuckerberg ha comprato Whatsapp – dotato negli ultimi tempi di un filtro anti-intercettazioni molto potente – e se ha sviluppato il Messenger al proprio interno, lo ha fatto proprio per intercettare, e recuperare, altrove il pubblico in fuga dal social per i colloqui a gruppi o due…



Ma non tutto funziona. Whatsapp per ora non fa ricavi a sufficienza, e Messenger ai fini del business è già una costola di Facebook. Tutto rischia di rivelarsi effimero. È di un anno fa la polemica contro il sistema degli “instant articles”, con il quale decine di grandi editori americani ma non solo hanno deciso di inserire i loro articoli direttamente nella “time line” di Facebook, come un post qualsiasi e non come un allegato, per risparmiare agli utenti la noia, ohibò, di attendere gli 8 secondi medi necessari per l’apertura di un link. Ebbene, a un anno-data non se ne parla più e l’espediente si direbbe non aver influenzato né l’andamento di quei giornali, né quello del social.



Alcuni ricollegano questa relativa, primissima crisi di crescita di Facebook alle notizie, o presunte tali, raccontate da alcuni “ex”, fuoriusciti dal social con molti mal di pancia, che l’hanno accusato di avere una redazione segreta di esseri umani e non di robot incaricata di manipolare i contenuti liberamente immessi dagli utenti, per influenzare la classifica che in molti Paesi (ma non in Italia) il social pubblica, come fa ovunque Twitter, per indicare i trending topics, cioè gli argomenti di tendenza. Secondo queste accuse, Facebook avrebbe effettuato delle censure politiche, per penalizzare i repubblicani… Addirittura il sistema sarebbe stato introdotto due anni fa, all’epoca del caso Ferguson, quel minorenne nero ucciso alle spalle da un poliziotto in America, fattaccio che sarebbe stato minimizzato “a mano” contro l’algoritmo che giustamente lo metteva in grande evidenza. Naturalmente il colosso di Menlo Park ha smentito.

Ora, premesso che è impensabile che tanta intelligenza artificiale non sia gestita con un pizzico di furbizia naturale, non è certamente per una sorta di condivisa e spontanea rappresaglia contro queste asserite censure che il pubblico sta postando meno e forse, raffreddando il suo entusiasmo per il social. È che il troppo stroppia, vecchia regola delle nonne ignorata dal mondo “iper” dei social network e, in generale, della Rete. Un gigantismo, un “oversize” veramente “all’americana”, che oltre a produrre danni nella testa degli utilizzatori ha cominciato a produrne nei conti dei produttori.