La scorsa settimana si è chiusa con una serie di nuvoloni neri sul Governo. Non solamente, il Presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, nel giro di 24 ore passate a Roma, ha avvertito il Governatore della Banca d’Italia e il Presidente del Consiglio che, dalla sua prospettiva “tecnica”, non ammetterà “sgarri” alla regole dei Trattati (e, quindi, si opporrà a maggiore Quantitave easing e flessibilità in materia di politica di bilancio), ma sono giunti dati economici preoccupanti sia dall’estero che dall’interno.



Dall’estero, le preoccupazioni principali vengono da oltre-Atlantico: nel primo trimestre dell’anno in corso, la crescita economica è stata soltanto dello 0,5% su base annua (ossia ai minimi negli ultimi due anni) e deludono sia investimenti che esportazioni. Gli Stati Uniti sono il volano dell’economia mondiale e di quella europea, in particolare da quando l’Asia (specialmente la Cina) è in marcato rallentamento e i maggiori Paesi dell’America Latina sono in recessione. Dall’interno è giunta una batteria di statistiche poco confortanti. Da un canto gli indici di fiducia dei consumatori e delle imprese sono in calo. Da un altro, gli indici dei prezzi al consumo e alla produzione sono in contrazione sia rispetto al mese precedente che, soprattutto, all’anno scorso, mentre dal lato dell’occupazione, la situazione non migliora.



Tutto ciò indica che gli obiettivi di crescita indicati nel Def saranno molto difficili da raggiungere. Le stesse autorità dell’Unione europea saranno perplesse nel concedere flessibilità in materia di politica di bilancio se il rallentamento della già modesta crescita prevista nel Def comporterà (come pare inevitabile) un maggiore indebitamento netto della pubbliche amministrazioni (sia in termini assoluti che rispetto al Pil) e un aumento dello stock di debito pubblico (ancora una volta sia in termini assoluti che rispetto al Pil). E l’equilibrio strutturale di bilancio apparirà come un miraggio sempre più lontano.



Difficile congetturare un miglioramento a breve termine del quadro internazionale su cui comunque l’Italia non ha la possibilità di incidere. Quindi, è sulle determinanti interne che occorre agire. In questi giorni, circolano analisi di istituti indipendenti di analisi economica, come Prometeia e il Ref. Alcuni dei dati macroeconomici sono stati già pubblicati sulla stampa cartacea e on line. I più interessanti, però, sono quelli settoriali e microeconomici.

Da essi si ha una riconferma che, dal 2009, la produttività (il nodo principale dell’economia italiana) è in netta ripresa nel manifatturiero e nelle imprese con più di 250 addetti, mentre continua a diminuire nel commercio, nelle piccole imprese, nelle costruzioni e nei servizi professionali. Questi sono tutti comparti le cui lobby hanno frenato le aperture al mercato e lo stesso disegno di legge che (con molta gradualità) le avrebbe introdotte è bloccato in Parlamento (dove è stato notevolmente stravolto). Quindi, se si vuole un’accelerazione, occorrono una politica industriale mirata a favorire l’aumento delle dimensioni di impresa (anche tramite aggregazioni, concentrazioni, fusioni e acquisizioni) e una politica dei servizi che punti a una loro selezione quasi darwiniana. Sono scelte difficili principalmente per un Governo il cui elettorato viene in larga misura da settori considerati, a torto o a ragione, “protetti”. Ma se non si prenderanno si rischia l’avvitamento in una spirale deflazionistica. Le deflazioni non fanno mai bene a nessuno. Tanto meno ai Governi che aspirano a una lunga durata al fine di effettuare le necessarie riforme istituzionali ed economico-strutturali.

Naturalmente misure di questa natura avrebbero effetti solamente nel medio periodo e, quindi, potranno difficilmente scansare i nuvoloni neri economici prima del referendum autunnale sulle riforme costituzionali. C’è qualcosa che può essere fatto nel breve periodo?

In un’unione monetaria non abbiamo la possibilità di effettuare una manovra analoga a quella che trentacinque anni tirò gli Usa del primo Governo Reagan fuori dalla recessione che aveva caratterizzato la seconda fase del Governo Carter. In consultazione con le autorità europee, si potrebbe tentare una terapia shock con una drastica riduzione simultanea e parallela sia dell’imposizione tributaria e para-tributaria che delle spese pubbliche. Non sono state fatte – che io sappia – simulazioni degli effetti di una terapia shock (che, nello specifico, potrebbe prendere varie alternative). Varrebbe, tuttavia, la pena che la Direzione Generale Analisi Economica del Dipartimento del Tesoro faccia un esercizio del genere e lo discuta con l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Prima che sia troppo tardi.