“Il quadro che emerge dal rapporto annuale dell’Istat documenta che le riforme economiche di questi anni, in particolare quelle relative al mercato del lavoro, sono state un fallimento”. Lo rileva Alberto Bagnai, professore di Politica economica all’Università G. D’Annunzio di Pescara. Dal rapporto risulta che 2,2 milioni di famiglie italiane vivono senza redditi da lavoro. Il dato è passato dal 9,4% del 2004 al 14,2% del 2015, e nel Meridione arriva al 24,5%. Le famiglie senza lavoro sono invece pari all’11,5% al Centro e all’8,2% al Sud.



Professore, quale scenario emerge dal rapporto annuale dell’Istat?

Il primo dato che salta all’occhio è quello sull’andamento del fatturato dal 2010 a oggi. L’inizio della stagione dell’austerità ha fatto crollare il fatturato sul mercato interno, che si è stabilizzato solo verso il 2013. Dal 2011 al 2013 è stato in tendenza negativa, e ora è stazionario al ribasso. Il governo si attendeva il soccorso della “cavalleria”, cioè della domanda mondiale, ma questa cavalleria non è arrivata perché il fatturato realizzato all’estero dalle aziende italiane è a sua volta stazionario.



Ci sono differenze di tendenza tra industria e altri settori?

Tra 2014 e 2015, l’industria in generale ha registrato un calo degli occupati dello 0,3%. Dal 2008 al 2015, nell’industria gli occupati sono calati del 13%. Nell’ultimo anno si è registrata una ripresa abbastanza consistente dell’occupazione in settori a basso valore aggiunto quali agricoltura, alberghi e ristorazione. Quello che emerge è quindi un panorama di deindustrializzazione, compatibile con il fatto che la nostra economia sconta un tasso di cambio sopravvalutato, in quanto l’euro è una valuta comunque troppo forte.



Come si spiega questa deindustrializzazione del nostro Paese?

Le riforme economiche attuate in questi anni, in particolare quelle relative al mercato del lavoro, stanno mostrando il loro fallimento. Nel 2015 abbiamo avuto un aumento dei dipendenti a tempo indeterminato che hanno rimpiazzato quelli a tempo determinato grazie agli incentivi fiscali legati al Jobs Act. Terminato l’effetto degli incentivi questa situazione si è rovesciata, e ciò significa che il lavoro tende a rimanere abbastanza precario. Le regole contenute nel Jobs Act dunque non sono efficaci.

Quanto è ancora diffuso il precariato?

Nel settore manifatturiero il 75% degli occupati sono rimpiazzi, cassa integrazione, blocco del turnover. La voce “aumento dell’occupazione stabile” è pari al 23%. Le altre sono voci che alludono a situazioni di lavoro precario o di cassa integrazione. Siamo quindi in una situazione abbastanza preoccupante, e tutto questo si riflette anche sui comportamenti delle famiglie. Oltre la metà delle famiglie dice che nel 2015 ha limitato la spesa per consumi quali alimentari e abbigliamento. Per quanto riguarda l’abbigliamento ciò riguarda addirittura il 63% delle famiglie.

 

E’ un panorama sconfortante, lei vede anche tendenze positive in atto?

Il panorama è in effetti sconfortante, anche perché l’Italia è il Paese che negli ultimi 20 anni ha avuto l’incremento più forte della disuguaglianza. Lo si vede quando si confrontano gli indicatori di disuguaglianza tra il 1990 e il 2010. Nel Regno Unito è passato da 0,49 a 0,52, in Italia da 0,40 a 0,51. Un secondo elemento di forte allarme è che dall’inizio dell’austerità l’incidenza di povertà relativa nei giovani fino a 17 anni è balzato dal 12,7 al 19. Se un minorenne è povero significa che la sua famiglia si è impoverita.

 

Perché l’Italia ha scontato un conto più pesante rispetto ad altri Paesi?

Mentre abbiamo Paesi con un rapporto deficit/Pil del 5%, all’Italia che è ben all’interno dei parametri di Maastricht è “regalato” uno 0,85%. L’intero apparato di regole europee, con l’esigenza del pareggio di bilancio, è totalmente fasullo. Se fino a quattro anni fa questo lo dicevano solo economisti keynesiani come me o Gustavo Piga, adesso questo accanimento dell’Europa sull’austerità è veramente insensato. Anche i “falchi” come Francesco Giavazzi hanno ammesso che il debito pubblico per l’Italia non è un problema.

 

(Pietro Vernizzi)