L’Europa è sempre più un gioco di specchi. Ricordate quel famoso film di James Bond dove l’eroe di Fleming è impegnato in una partita mortale contro avversari che appaiono e scompaiono e soprattutto mutano le loro forme, mentre cercano di colpire il nostro eroe? Ebbene, se si legge la lettera che martedì 16 maggio il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrowskis e il commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici hanno inviato al nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan c’è da rimanere sconcertati. In primo luogo, non si capisce nulla, perché manca la consecutio temporum. In secondo luogo, e questo è più importante, vi è scritto tutto e il contrario di tutto, nel miglior stile burocratese qui agitato e non shakerato con l’arroganza tecnocratica.



Vediamo: si inizia dicendo che si dà via libera a un rapporto tra il deficit e il Pil per il 2016 che può superare l’1,8% promesso fino al 2,3%. Questo si definisce uno «spazio di flessibilità sul deficit senza precedenti» per un valore circa di 13,6 miliardi. Ma questa flessibilità dura solo un anno e in tono perentorio si dichiara che essa è «strettamente condizionata» al fatto che con la prossima finanziaria il governo di Matteo Renzi trovi coperture per 10 miliardi. Naturalmente, a un mese dalle elezioni amministrative, questa lettera è un vero e proprio siluro contro una compagine governativa che ha annunciato nuove e giustissime misure di welfare che sono nel contempo stimoli alla ripresa, come un anticipo pensionistico, il raddoppio del «bonus bebè» e il piano casa. Tutte misure che naturalmente aumentano la spesa pubblica, nel brevissimo termine, mentre assicurano benefici futuri a medio e lungo termine.



Ma è proprio questa prospettiva di lungo e medio termine che manca al club dei dominatori dell’eurozona. Infatti, consentire una flessibilità di pochi decimali e per un lasso di tempo così breve non cambia assolutamente nulla nella logica economica che ci ha sprofondato nella deflazione e quindi in una crisi che dà solo segni molto flebili di inversione. Certo, si permette all’Italia di fare più deficit del previsto, ma le quantità permesse sono talmente scarsamente significative che non garantiscono nessuna possibilità di inversione di tendenza rilevante rispetto alla recessione.

C’è di peggio: i due sopra ricordati estensori della lettera aggiungono che «per garantire la flessibilità richiesta… la Commissione ha bisogno di un chiaro e credibile impegno che l’Italia rispetterà i requisiti del patto di crescita e di stabilità nel 2017». E questo perché, aggiungono, il debito italiano continua a rimanere «fuori controllo» al 132% del Pil. Sempre nella lettera, si conferma che verrà aperto un rapporto sulla mancata riduzione di questo debito.



I due estensori sono pignoli, scrivono, bontà loro, ben esplicitando che la nostra sovranità economica e non solo quella monetaria è ormai ampiamente perduta, che «la nostra ricognizione attuale degli sforzi fiscali per il 2017 indica un gap compreso tra l’1,5% e il 2% del Pil (ossia tra i due e i tre miliardi) ed è quindi cruciale per la Commissione che l’Italia sia pronta ad agire per assicurare che tale gap non si materializzi». 

In poche parole, la Commissione minaccia di non disinnescare quelle cosiddette clausole di salvaguardia, ossia quegli impegni diretti ad aumentare l’Iva per 15 miliardi e più (0,9% del Pil), a meno che non si trovino misure compensative alternative. Insomma quando si leva il capo da questa lettera e si riesce a trovare la via della ragione nella selva oscura di un linguaggio contorto, ci si accorge che, se vogliamo godere di questo beneficio nel breve termine, nel lungo termine dovremmo trovare almeno 10 miliardi di taglio della spesa per colmare il divario tra deficit e Pil, come ci è imposto dalla Commissione.

Una bella flessibilità, non c’è che dire. E che si colloca in un orizzonte e in insieme di motivazioni che dunque non hanno nulla di economicamente positivo rispetto alla fine dell’austerità e all’inveramento della crescita. Si pensi al fatto, per corroborare questa tesi, che i giornali spagnoli e portoghesi, da qualche tempo, annunciano e preconizzano, insieme, consimili misure per Spagna o Portogallo e che tutto l’insieme di questo gioco di specchi segue quella politica sempre di breve termine, ma di soffocamento della protesta e di prender tempo, come si è fatto in Grecia, che pare divenuto il motivo dominante della tecnocrazia europea.

Infatti , e qui entriamo dentro la macchina degli specchi, la ragione di questo strombazzare a destra e a manca benefici futuri e immediati, diretti a ostacolare l’austerità, ha un solo significato ed è quello di esercitare una moral suasion diretta a presentare un volto umano dell’Europa a dominio tedesco in occasione del referendum sulla Brexit, che sempre più si avvicina minaccioso. Chiunque parli con esponenti dell’establishment del Regno Unito avverte in essi lo stesso terrore che una parte dell’establishment nordamericano rende evidente parlando di Trump. Per me, come per tutte le persone dotate di senno, son cose ben diverse, ma che hanno un tratto comune: può accadere ciò che un tempo pareva impossibile. Del resto, se si pensa che il Regno Unito non ha per sua fortuna quel rigido sistema di cambi fissi costituito dalla moneta unica, perché la sua sterlina se la sono tenuta ben cara, perché cara è loro la sovranità monetaria ed economica, ebbene la fuoriuscita dall’Ue della terra in cui si firmò la Magna Charta sarebbe ancor più grave di una uscita dettata da sole ragioni economiche.

Gli inglesi che vogliono andarsene dall’Ue vogliono farlo per la sua struttura tecnocratica e per la sua asimmetria di potenza che essi ritengono, nel declino della Francia e nel ruolo limitato dell’Italia, ormai irreversibilmente consegnato alla rinata potenza tedesca, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Insomma: la Brexit dimostra che l’economia non è tutto nelle vicende della storia, anzi è quasi nulla al cospetto delle tradizioni storiche e delle culture politiche. Per questo la Brexit eventuale è pericolosissima per la cuspide dominante della tecnocrazia europea e delle classi politiche di diverse nazioni che da questa cuspide si fanno dominare. 

La circolazione di quelle elites politiche sarebbe messa gravemente a rischio. Per questo esse adornano il labirinto di specchi con dei festoni, delle lampade e dei giochi luminosi che stordiscano i popoli e in primis ammansiscano gli inglesi che dall’Ue vogliono uscire.

Si tratta tuttavia di una politica di cortissimo respiro, come ho cercato di dimostrare, perché punta solo su manovre fondate sui benefici immediati prima ricordati. E infatti, appena si leva il capo oltre quella siepe, si cade nello sconcerto e anche nello stupore dinanzi a visioni di così angusto respiro, tipiche di classi dominanti che non riescono a farsi dirigenti.