Matteo Renzi dice che è solo l’inizio. Pierre Moscovici sostiene che è la fine. Nel celebrare un successo diplomatico con il riconoscimento della massima flessibilità possibile (secondo Bruxelles) il capo del governo italiano sostiene che è arrivata l’era della post-austerità ed è cominciata proprio in Italia. Il commissario europeo agli Affari economici e i membri dell’intera Commissione, al contrario, avvertono che l’eccezione conferma la regola.



Forse hanno un po’ di ragione entrambi. O forse è successo qualcosa di diverso. Cioè l’Ue ha scelto di ragionare politicamente, tenendo conto delle congiunture nelle quali si trovano i governi dei paesi più a rischio. Così, ha concesso alla Spagna una sorta di moratoria finché non si capirà se avrà vinto qualcuno alle prossime elezioni e sarà possibile formare un governo duraturo. Quanto all’Italia, ha dato spazio di manovra fino a ottobre, cioè fin a quando si vedrà se, con il sì al referendum costituzionale, Renzi potrà consolidarsi fino a gestire nel modo a lui più favorevole le prossime elezioni. Politique d’abord, insomma. E siccome Renzi ha dimostrato a parole e con i fatti che per lui la politica è al primo posto, certamente può essere soddisfatto.



Bisogna vedere adesso come verrà utilizzato il temporaneo “tesoretto” di circa 14 miliardi. E qui sembrano già emergere alcune divergenze non di poco conto. L’Ue vorrebbe che servisse ad avviare una vera riduzione del debito. Renzi si lancia in una ridda di promesse più o meno elettoralistiche senza spiegare come possono essere realizzate e pagate. Il ministro del Lavoro Poletti avanza un’altra idea: concentrare le risorse in un taglio consistente del cuneo fiscale. Siccome il problema dell’Italia è il divario sempre maggiore del costo del lavoro per unità di prodotto, ridurre le imposte sul lavoro è la via più efficace per restringere la forbice. Vedremo nelle prossime settimane chi prevarrà. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, non si sbilancia, abbottonato come le sue giacche un po’ fuori moda.



In scena, dunque, si recita la commedia della flessibilità, ma dietro le quinte si sta provando una pièce più complessa che pone all’Italia dilemmi di fondo. Proprio questa priorità della politica rispetto all’economia induce un aumento della discrezionalità rispetto all’astrattezza delle regole. La loro interpretazione “intelligente”, come disse una volta Romano Prodi, può creare conflitti e vere e proprie discriminazioni. Anche per questo nel dibattito europeo sta riprendendo quota una tema che per l’Italia sarebbe meglio rinviare almeno finché le cose non si saranno aggiustate. È la questione di come riorganizzare l’Unione europea, urgentissima se a fine giugno vince il Brexit e la Gran Bretagna avvia il percorso a ostacoli per la sua uscita dall’Unione, ma di attualità in ogni caso perché la Germania ne sta facendo una priorità.

L’Ue così com’è non funziona, è nello stesso tempo troppo ampia e troppo debole. Dunque, bisogna individuare un nuovo modo di stare insieme. Le concessioni fatte a Londra prefigurano una sorta di cerchio periferico nel quale alcuni paesi si possono collocare, restando un po’ dentro un po’ fuori. Ma a questo punto bisogna individuare anche un cerchio ristretto, un nocciolo duro, quello che nel 1994 un documento preparato da Wolfgang Schaeuble insieme a Karl Lammers, allora entrambi esponenti di punta della Cdu, chiamava la Kerneuropa, cioè il nocciolo duro dell’Unione.

Due anni fa la Fondazione Adenauer, il pensatoio del partito cristiano democratico, ha celebrato con un convegno i vent’anni di quella iniziativa, occasione solenne per riproporla. Moscovici intervenne apprezzandola, nella speranza di rilanciare l’ormai logoro se non proprio frantumato asse Parigi-Berlino. Ma in fondo la Francia ha sempre lamentato che l’allargamento dell’Unione avrebbe provocato una sua eccessiva diluizione: sia i post-gollisti, sia i socialisti su questo la pensano allo stesso modo.

Ma chi farà parte di questo club ristretto? I cinque paesi fondatori (quindi anche l’Italia)? E la Spagna e la Polonia? Perché lasciar fuori gli altri due grandi nazioni fondamentali per l’Europa? È facile prevedere che comincerà un braccio di ferro con un incrocio di interessi e di orgoglio nazionale tale da ostacolare se non proprio far saltare il progetto.

La discussione sul nuovo assetto dell’Unione europea darà occasione alla Germania di riproporre come discriminante fondamentale la questione del debito pubblico. Abbiamo visto che Jens Weidmann nel suo intervento all’ambasciata tedesca a Roma lo ha detto con apprezzabile franchezza. O l’Italia riduce davvero non solo il rapporto tra debito e prodotto lordo (che continua a crescere a quindici anni dall’introduzione dell’euro), ma anche lo stock arrivato al record di 2.200 e rotti miliardi, oppure è fuori. Il rischio è che, nel momento in cui torneranno ad aumentare i tassi di interesse di mercato (se la Fed manovra al rialzo questo potrà avvenire fin dall’estate), ricominci anche il balletto dello spread e l’Italia torni a essere un pericolo per l’intera area euro, come ha ammonito il presidente della Bundesbank.

Non è uno scenario futuribile, è il naturale corso delle cose, la dialettica politica che si farà sempre più aspra, Brexit o non Brexit. Dunque, celebriamo, stappiamo pure champagne per la flessibilità ritrovata, ma teniamo la testa fredda e i nervi saldi, perché occorre prepararsi a una prova difficile, forse la più difficile, che deciderà se l’Italia può uscire davvero dal girone dei perdenti.