Questa Europa è marcia. Nell’anima. Dopo aver negato per mesi e mesi la crisi dei migranti, tacciando di razzismo chiunque ponesse interrogativi sulla sua portata e sostenibilità economico e sociale, ecco che la Commissione europea ora sta lavorando a una sorta di mini-piano Marshall per l’Africa, 60 miliardi per cercare di fermare le migrazioni, aiutando in loco governi e popoli. Paiono tutti d’accordo, da Renzi che per primo a proposto il Migration Compact ad Angela Merkel al presidente dell’esecutivo comunitario, Jean-Claude Juncker. Tanto che Bruxelles sta lavorando a un testo che sarà approvato dal collegio dei commissari Ue il 7 giugno e poi portato al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno alla ricerca del via libera da parte dei capi di Stato e di governo dei Ventotto.



Al centro del piano ci sarebbero i Paesi del Sahel e del Corno d’Africa e il suo funzionamento dovrebbe ricalcare lo schema proposto da Renzi, ovvero vincolare qualsiasi aiuto in cooperazione allo sviluppo e ogni singolo progetto per la creazione di infrastrutture e dunque destinato a diventare generatore virtuoso di posti di lavoro e stabilità sociale. L’Unione in cambio di pacchetti di investimenti creati su misura per ogni Paese chiederà cooperazione nella gestione delle frontiere, anche costiere, accoglienza nei Paesi di transito in campi gestiti anche dall’Unhcr. Inoltre, gli europei vorranno un forte impegno dei Paesi sicuri sui rimpatri dei propri migranti economici e nell’ospitare i richiedenti asilo.



Ma come si finanzierà questo progetto, ottimo sulla carta? Come si passerà dagli attuali 5 miliardi di aiuti – 1 miliardo in meno di quanto diamo alla Turchia per ammassare i profughi e non farli entrare in Grecia e nei Balcani – ai 60 paventati? Ed ecco che emerge l’anima marcia dell’Europa. Ammesso che questo progetto resti in piedi da qui al 7 giugno, si cercherà di costituire un capitale di partenza capace di attrarre investimenti pubblici (governi o veicoli come la Cassa depositi e prestiti) che probabilmente non saranno contati nei deficit nazionali e investitori privati per finanziare i singoli progetti. Lo stesso metodo usato per il Piano Juncker, che con un capitale di partenza di 21 miliardi ha già raccolto 100 miliardi di euro con l’obiettivo di arrivare a 315 per rilanciare l’economia Ue: insomma, si opera a leva come gli hedge funds!



Il piano Juncker, quello che doveva salvare l’eurozona, si è dimostrato un fallimento totale e adesso vogliono utilizzare a medesima ricetta per un tema di questa criticità? Oltretutto con l’estate ormai alle porte e la prospettiva di 800mila immigrati da Maghreb e Africa sub-sahariana già in Libia in attesa di attraversare il Mediterraneo. Per sbarcare dove, indovinate? Ma c’è dell’altro che svela la malafede europea sull’argomento, ovvero come fino a oggi le varie istituzioni comunitarie abbiano trattato il tema, chi abbiano finanziato al riguardo e con chi abbiano collaborato.

A chi fanno capo, infatti, molte delle Ong che da anni stanno operando in favore della politica di porte aperte e integrazione a tutti i costi delle centinaia di migliaia di immigrati che stanno arrivando in Europa? George Soros. E non lo dico io, la denuncia arriva da un ex politico francese, Bernand Carayon, e proprio per questo assumono un contorno particolare e nefasto. E, attenzione, non è un consigliere comunale del Front National caduto in disgrazia, è un ex deputato dell’Ump. Intervistato dal sito francese Atlantico, l’ex membro del Parlamento ha sparato a zero: «Soros è la mente che sta guidando l’influsso di migranti in Europa attraverso oltre 100 Ong che sussurrano nelle orecchie dell’Ue di incoraggiare il collocamento degli immigrati».

E sapete qual è la cosa più assurda? Che nonostante a parole ci si scarichino addosso le colpe e si organizzi un Eurogruppo dopo l’altro per dar vita a misure di contrasto degli sbarchi, ivi compreso pagare 6 miliardi alla Turchia, un terzo di quelle Ong sono sussidiate non solo dalla Open Society di Soros, «ma anche dall’Unione europea stessa, attraverso una rete di fondazioni, partner e progetti attivi in oltre 100 nazioni». E con un patrimonio di quasi 25 miliardi di dollari, per Soros finanziare rivoluzioni colorate non è certo un problema, né tantomeno stanziare 1 miliardo di dollari l’anno per le attività di gruppi pro-migranti.

Carayon ha spiegato che «la Open Society e il think tank con sede a Washington noto come Migrant Policy Institute hanno pubblicato un report congiunto dal titolo Welcoming Engagement: How Private Sponsorship Can Strengthen Refugee Resettlement in the European Union nel quale si festeggia l’impegno e l’incoraggiamento della Commissione europea verso la sponsorizzazione privata e il lavoro delle Ong per il collocamento di migranti oltre la quota stabilita nei Paesi membri dell’Ue». C’è poi la Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants (Picum) di Bruxelles, una Ong che a detta di Bernand Carayon avrebbe pesante influenza sulle istituzioni europee, tanto che recentemente ha subito voluto festeggiare la direttiva dell’Ue su diritti delle vittime, pubblicando una guida per l’accesso privilegiato di migranti senza documenti verso i servizi di protezione sociale e legale. Anche questa organizzazione è finanziata dalla Open Society di Soros e dell’Unione europea.

Terza e più famosa delle organizzazione che operano sotto l’ombrello della Open Society è Oxfam, visto che insieme hanno finanziato il movimento Enough is enough in Senegal, forse l’ennesimo tentativo di Soros di dar vita a una rivoluzione colorata in un Paese straniero. E anche l’Ue non vuole essere da meno del miliardario ungherese, visto che nell’anno fiscale 2013-2014 ha finanziato Oxfam con 75,3 milioni di euro. C’è poi UNITED for Intercultural Action, un network composto da attivisti dichiaratamente di estrema sinistra e finanziato da Consiglio d’Europa, Commissione europea e Open Society.

Ma Carayon è un fiume in piena ed ecco puntare il dito contro un altro attore sulla scena: «Un altro think tank che ha molta influenza e che opera nel settore è lo statunitense European Stability Initiative che, di fatto, sta dietro il cosiddetto “piano Merkel” dell’ottobre 2015, ovvero l’apertura indiscriminata delle frontiere, tanto da chiedere al governo tedesco di emettere permessi di soggiorno gratuiti per muoversi liberamente all’interno del Paese. Dietro questo oscuro think tank, troviamo sempre la Open Society, il Rockfeller Brothers Fund e altri finanziatori americani». Fino a 40 anni fa servivano le bombe della strategia della tensione per destabilizzare i Paesi ed eterodirigerne le politiche, oggi si utilizza la bomba demografica dell’immigrazione di massa, spesso giustificata da qualche cervello sopraffino con il fatto che gli italiani non fanno figli e non vogliono accettare certi lavori. E l’Ue, per anni, non solo ha accettato questa politica, capendo solo ora (cioè quando è tardi) che l’immigrazione di massa si combatte creando condizioni di stabilità e prosperità nei Paesi africani affinché la gente non scappi, ma l’ha anche finanziata, garantendo sostegno a entità – quasi sempre Usa e di loro emanazione – che l’ipotesi della cooperazione internazionale nemmeno la contemplavano, operavano solo in chiave di accoglimento in Europa dei migranti nel massimo numero possibile. Oggi, invece, ci vendono la strumento finanziario a leva per trasformare i pulciosi 5 miliardi finora stanziati per l’Africa in 60: patetici.

Il problema è che mentre noi affrontiamo questa emergenza, l’agenda di chi tira i fili nel mondo sta riempiendosi e sta andando verso un epilogo decisamente rischioso. Vi siete chiesti come mai il Partito repubblicano Usa abbia di colpo smesso di fare la guerra aperta a Donald Trump, il quale nel fine settimana ha ottenuto anche l’endorsement della potente National Rifle Association, la lobby dei costruttori di armi? Tutto è cominciato a cambiare dopo le parole pronunciate dal miliardario newyorchese alla vigilia delle primarie in Indiana del 3 maggio scorso, quando rispose così a chi gli chiedeva cosa si sarebbe dovuto fare se la diplomazia non fosse servita a risolvere la questione dei “contatti ravvicinati” tra mezzi militari Usa e russi: «Se non funziona, non lo so… a un certo punto è necessario sparare. Questa è una vergogna, una vergogna. È una completa mancanza di rispetto per il nostro Paese e il presidente Obama».

E attenzione, perché in attesa del passaggio di consegna alla Casa Bianca e nel silenzio generale, un altro è già avvenuto almeno in maniera informale: quello tra il vecchio e il nuovo comandante delle forze Nato in Europa. Il generale Philip Breedlove passerà infatti il comando dei suoi 60mila uomini al generale statunitense Curtis M. Scaparrotti e per suggellare l’atto due settimane fa ha lanciato minacce precise verso Mosca, dopo aver confermato il dispiegamento di altri 4mila uomini ai confini russi in Polonia e altri tre Stati del Baltico: «Dobbiamo essere pronti per una situazione nella quale la Russia non è un nostro partner e dobbiamo tornare alla pianificazione della guerra, un’abilità che abbiamo perso nell’era post-Guerra fredda e di cui abbiamo bisogno per affrontare una Russia risorgente». Pesanti anche le parole di risposta di Aleksandr Grushko, l’inviato russo presso la Nato, a detta del quale la Russia «non sarà certo uno spettatore passivo. Stiamo prendendo tutte le misure militari che consideriamo necessarie per controbilanciare questa presenza rinforzata, la quale non è giustificata da nulla. Certamente, risponderemo in maniera totalmente asimmetrica».

Insomma, potrebbe bastare una scintilla. Ma noi siamo occupati in altro, ancora persi nel vecchio schema di contrapposizione destra-sinistra, fascisti-comunisti, razzisti-antirazzisti che è andato in onda sabato mattina per le strade di Roma. Lo scontro è altro, così come il nemico. Si chiama mondialismo e il principio buonista dell’abbattimento della barriere è il suo cavallo di Troia per giungere a un mondo senza più sovranità e a controllo centralizzato di un unico potere economico-finanziario-militare. Pensateci.