Una situazione abbastanza simile a quella del contesto in cui si svolge Tosca di Puccini (dal dramma di Sardou): il 14 giugno 1800, la notizia della vittoria schiacciante della coalizione antifrancese a Marengo, arriva a Roma nella tarda mattinata, si organizzano Te Deum e soirée di gala, ma verso la mezzanotte si apprende la verità, ossia la travolgente vittoria di Napoleone sugli avversarsi, i cui generali sono in fuga con le truppe allo sbaraglio.
Non è andata proprio così: dal 16 al 18 maggio 2016, un’accurata campagna mediatica – ormai tra fusioni, concentrazioni e cambiamenti di direttori, i quotidiani sono, con poche eccezioni, tutti governativi (come ai tempi del Minculpop) – ha preparato “la grande notizia” della “approvazione” (con pochi distinguo) dei nostri documenti di politica economica da parte della Commissione europea (e, quindi, dell’Unione europea). Il “giorno fatidico”, a Palazzo, ci si è complimentati l’un l’altro (stappando bottiglie di prosecco – lo champagne sarebbe stato di cattivo gusto in una fase ancora di austerità).
Non solo la Commissione ha meri compiti istruttori (le decisioni spettano agli organi politici dell’Ue), ma una volta pubblicate le carte ci si è accorti che non si tratta di una vera promozione: Bruxelles propone di rimandarci a ottobre, per un nuovo esame sia dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, sia dello stock di debito pubblico. In effetti, le autorità europee si esprimeranno dopo il referendum, e sulla base dei dati dei primi due trimestri del 2016, al fine di non “turbare” la campagna referendaria.
Occorre dare atto al Governo, e in particolare al ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, di aver comunque ottenuto un risultato apprezzabile: la richiesta ora di una manovra aggiuntiva non solo sarebbe stata interprtetata come un segnale di sfiducia, che non avrebbe comunque avvantaggiato la ripresa di consumi e investimenti, ma avrebbe influito sulle scelte referendarie (e forse anche sulle imminenti elezioni amministrative). È doveroso dare atto che una “cortesia” analoga è stata fatta dalla Commissione alla Spagna, le cui nuove elezioni politiche sono imminenti.
Il 20 maggio, appena due giorni dopo la pubblicazione del documento della Commissione europea, l’Istat ha diramato il Rapporto Annuale 2016, che quest’anno include utili approfondimenti e un taglio particolare (un’analisi generazionale dell’andamento dell’economia dal dopoguerra a oggi). Non so quanti lo hanno letto con attenzione: è pur sempre un volume di 300 pagine. A mio avviso, ci si è attardati eccessivamente sul leggero scarto di previsioni per gli andamenti economici nell’anno in corso (una crescita del Pil dell’1% e non dell’1,1%) piuttosto che sullo studio delle fragilità dell’Italia, il raggiungimento dei cui obiettivi (ivi compresa la crescita del Pil dell’1% nel 2016) è messo a repentaglio “dalle aspettative di crescita internazionale”.
In effetti, il quadro macro-economico “dovrebbe continuare a beneficiare della ripresa della domanda interna e degli effetti di stimolo della politica monetaria”. In pratica, dobbiamo contare su noi stessi e non sulla trazione dalla domanda estera. E noi – lo dice il resto del rapporto – non dobbiamo sperare che la buona volontà e le ottime intenzioni ci traggano d’impaccio. Siamo infatti intrinsecamente molto fragili: una popolazione che invecchia, le migliori risorse umane che emigrano, la mancanza ormai “storica” di una politica per la famiglia, i minori afflitti da povertà e deprivazioni che incideranno su tutta la loro vita, le piccole imprese che non riescono a diventare medie e grandi per competere nell’economia internazionale, bassa produttiva, e una crescita più bassa di quella di tutti gli Stati dell’eurozona tranne la Grecia.
Il Rapporto Istat non può dirlo perché l’Istituto travalicherebbe i propri compiti istituzionali, ma su tutto questo incide la cappa di un settore pubblico e di una spesa pubblica dilatati oltre ogni misura, che già nel 1972 in un suo libro ormai fuori catalogo Giuliano Amato (non certo un iperliberista) definiva “pasticcioni” e “impiccioni”.
Interessante notare che proprio mentre a Palazzo si brindava, il 18 maggio al Ripetta Residence di Roma veniva discusso il Ventesimo volume del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi sull’Italia nell’economia internazionale. Lo studio, curato come sempre da Mario Deaglio, dice tutto sin dal titolo “Ripresa, e se toccasse anche a noi?”. Deaglio e i suoi co-autori e colleghi non hanno i vincoli istituzionali dell’Istat: possono, quindi, analizzare più apertamente le fragilità che potrebbero farci scivolare in recessione. Anche prima del referendum.