C’è fermento sui mercati delle materie prime per l’aumento del prezzo del petrolio che sfiora i 50 dollari al barile, con un’impennata imprevista che ha stupito molti operatori. Il regime di fissazione dei prezzi fondato non sullo scambio delle quantità fisiche – e quindi sulla concorrenza anche oligopolisticamente ristretta – ha generato una sorta di mancanza di attenzione sulle condizioni di contesto in cui le produzioni gli impianti di estrazione sono immersi. Questa attenzione non cambia certo il regime di determinazione dei prezzi, ma certo e in modo profondo le aspettative dei cosiddetti mercati, ossia delle quotazioni borsistiche che conducono la trasformazione delle quantità fisiche in indici di valore che si formano nell’arena della borsa. Dove a scambiarsi non sono appunto quantità fisiche, ma capitali simbolici che si formano in base alle ondate di vendita oppure di acquisto degli stessi simboli monetari.
L’aumento del prezzo del resto non è dovuto a mutamenti nei consumi o delle quote di produzione, ma delle condizioni psicologiche degli operatori. In primo luogo, gli incendi in Canada e i tumulti venezuelani provocati dall’agonia del regime del Presidente Maduro che opera peggio di quanto non fece Chávez, disgregando le stesse condizioni di formazione dei prezzi con la crisi irreversibile di Pdvsa, la compagnia petrolifera di bandiera. A ciò si aggiunge la serie ininterrotta di incidenti nigeriani nelle acque e nelle terre da cui scaturisce il greggio rendendo quasi insostenibile l’attività di produzione per i ladrocini, i sabotaggi, le minacce che rendono impossibile vivere negli e per gli impianti.
Ma la vera causa scatenante risiede nel calo delle riserve Usa, determinato dai colli di bottiglia che nascono dalla scarsità di investimenti nella raffinazione e quindi nella produzione dei derivati dal greggio. La principale causa di ciò risiede nell’alto indebitamento delle imprese dello shale oil, che risentono del lungo periodo di calo dei prezzi per l’eccesso di capacità e di produzione in una fase di recessione economica e che i sauditi hanno amplificato con il conflitto da essi provocato nell’Opec e con le manovre contro l’Iran e la Russia, dopo la rottura del patto storico con gli Usa sul piano geopolitico per effetto dell’accordo sul nucleare con Teheran.
Si tratta tuttavia di fissazione dei prezzi che influenzano le aspettative borsistiche e che quindi è ben difficile individuare quanto dureranno e comprendere se indicano una tendenza costante e non effimera. Solo il ritorno a regimi di prezzi fondati sullo scambio fisico e non finanziario e speculativo potrà rendere possibile ricostituire un regime di ricerca e produzione in grado di soddisfare i bisogni, anziché le aspettative delle borse.