Nel mio articolo di sabato, mettevo in guardia dal fatto che la Turchia, come atto di rappresaglia per lo slittamento dell’introduzione di visti liberi per i suoi cittadini nell’Ue, potrebbe disattendere l’accordo raggiunto con le autorità europee sul tema dei migranti e aprire le proprie frontiere, di fatto legittimando un’invasione di terra. Ma il problema è che, con la sua mediocrità ontologica, l’Europa continua a legarsi sempre più a doppio filo con un partner inaffidabile e infido come Ankara e sempre su tematiche di relative a criticità vitali per la sua stessa esistenza.



Nel silenzio generale dei media e dopo anni di dibattito, il 17 maggio scorso a Salonicco, in Grecia, sono stati infatti inaugurati i lavori del Tap (Trans-Adriatic Pipeline), la pipeline che connetterà il mar Caspio ai mercati europei per l’approvvigionamento di gas naturale. Un’opera enorme che costerà 45 miliardi di dollari e che, una volta completata nel 2020, sarà in grado di trasportare 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno verso il Vecchio continente. Alla cerimonia era presente il primo ministro ellenico, Alexis Tsipras, insieme ad alti funzionari di vari governi tra cui Georgia, Azerbaijan, Albania, Ue e Dipartimento di Stato Usa, tutti soggetti che hanno ragioni per supportare il progetto, peccato che spesso siano in conflitto tra loro.



Il consorzio che svilupperà il progetto e quindi che beneficerà di profitti economici è formato dalla britannica Bp, dall’azienda azera a controllo statale Socar e altri, ma sono anche i governi nazionali ad avere degli interessi economici in ballo, sia a livello di costruzioni infrastrutturali che di pedaggi di transito. Per la Grecia, in particolare, il Tap è visto come un’opportunità di stimolo economico per un Paese che, nonostante il nuovo accordo sul debito, vede i propri tassi di crescita languere in situazioni da incubo. Addirittura felicissimo il governo statunitense, a detta del quale il Tap riduce finalmente la dipendenza europea dall’energia russa, di fatto rendendosi meno vulnerabile a possibili ricatti di Mosca.



Nella sua lettera di congratulazioni al premier greco, il numero uno del Dipartimento di Stato, John Kerry, ha scritto che «il Tap è il primo esempio di infrastruttura che migliora la sicurezza energetica europea». E anche l’Ue festeggia, ebete come al solito. Presente alla celebrazione, il vice-presidente per l’Unione energetica della Commissione Europea, Maros Sefovi, ha dichiarato che «un unico mercato energetico europeo ci permetterà di aumentare la sicurezza delle nostre forniture attraverso il libero flusso di energia dai nostri confini. Ci consentirà di negoziare meglio con i nostri partner esterni, dato che l’Ue è il maggior importatore di energia al mondo».

Come ci mostrano le due grafiche più in basso, il Tap permetterà una diversificazione degli approvvigionamenti di gas naturale, ponendo fine al monopolio russo verso l’Europa: la tratta comincia nel Mar Caspio in Azerbaijan, dove la South Caucuses Pipeline porterà il gas del Caspio dell’enorme giacimento di Shah Deniz-2 fino al confine con la Turchia. Da qui il gas passerà attraverso la Trans Anatolian Pipeline (Tanap) che lo porterà fino al confine con la Grecia, dove entrerà in azione il Tap per arrivare all’Italia via Albania e Adriatico.

I progetti relativi alla pipeline fanno riferimento al cosiddetto “corridoio sud” per il gas europeo, di fatto la rotta alternativa a quella della dipendenza russa di cui si è parlato per anni e anni e che ha visto per un periodo l’Unione europea preferire il progetto dalla pipeline Nabucco, la quale invece di portare il gas naturale dal Caspio all’Italia avrebbe previsto un intricato percorso attraverso i Balcani per poi arrivare all’Europa centrale.

In opposizione a quel progetto, Mosca spinse per avere la propria rotta nel sud Europa, il cosiddetto South Stream Pipeline, che avrebbe spedito il gas russo dal Mar Nero alla Bulgaria. Ovviamente, i regolatori europei misero in campo tutto l’armamenario possibile per far deragliare il progetto, attaccandosi a violazioni della normativa sulla concorrenza come motivo ufficiale di diniego. Arrivò poi la crisi russo-ucraina e l’irrigidimento dei rapporti tra Mosca e Bruxelles, tanto che il Cremlino decise allora di portare avanti il progetto Turkish Stream, il quale avrebbe portato il gas russo in Europa attraverso la Turchia.

Il progetto, in realtà, è sempre stato più sulla carta che altro, tanto che quando i rapporti tra Mosca e Ankara arrivarono ai ferri corti per l’abbattimento del jet russo in Siria da parte della contraerea turca, moltissimi osservatori lo avevano già dato per morto, sia per i costi che avrebbe comportato, sia perché Putin non si fida – giustamente – di Erdogan. Oggi, invece, il dado è tratto: attraverso il progetto Tap, l’Europa mette nelle mani della pipeline turca Tanap la propria sicurezza energetica, di fatto tagliando fuori Mosca soltanto per fare contenta Washington. La quale, come anticipato, pur non avendo nulla da guadagnare dal progetto a livello energetico, si è congratulata: ormai, fare la guerra a Putin sembra l’unico sport mondiale e l’Europa, geniale come al solito, si accoda.

Quindi, non solo siamo ostaggio di Erdogan sulla questione migranti, ma anche a livello energetico e la questione non è rimandata a data da destinarsi, perché il progetto è partito e il 2020 è dietro l’angolo. Tanto più che Washington non permetterà cambi di direzione e Bruxelles, com’è noto, è completamente succube delle decisioni Usa. Come definire, altrimenti, il belato servile giunto dal G-7 di Ise-Shima terminato venerdì scorso, dove la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha detto che i sette grandi non hanno intenzione di revocare le sanzioni inflitte alla Russia per il suo coinvolgimento nel conflitto nell’Est dell’Ucraina? «Per me è troppo presto per dare il via libera», ha detto la Merkel, rispondendo alle domande dei giornalisti, per poi aggiungere che la precedente politica pro-sanzioni resterà in vigore: «Non c’è da aspettarsi alcun cambiamento di posizione dal G-7», ha affermato.

In precedenza, il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, aveva detto la sua sulla questione, sottolineando che il G-7 aveva bisogno di prendere «una posizione chiara e forte» sulla Russia per i suoi movimenti in Ucraina, oltre che sulla Cina per le sue controverse rivendicazioni sul Mar della Cina meridionale. «Il test sulla nostra credibilità al G-7 è la nostra abilità nel difendere i valori comuni che condividiamo – ha detto ai giornalisti in Giappone – e questo test sarà superato soltanto se prenderemo una posizione chiara e forte su ogni argomento delle nostre discussioni qui». Ma non basta, perché nel corso di una conferenza stampa post-meeting, il premier britannico David Cameron ha posto la pietra tombale sull’argomento: «Sulla Russia, il G.7 ha concordato l’importanza vitale del rinnovo delle sanzioni nel mese di giugno. L’Ucraina è vittima di un’aggressione effettuata con il sostegno russo. Non dobbiamo mai dimenticarci questo fatto. E per il G-7 è chiaro che le sanzioni esistenti devono rimanere in vigore finché non verranno pienamente attuati gli accordi di Minsk. Credo sia una decisione importante».

Quando uno nasce servo, difficilmente muore Spartaco. Complimenti, ora oltre ai migranti anche il gas: vogliamo offrire qualche altra arma strategica di ricatto a Erdogan? Ma si sa, il nemico è Putin. Come ci ha dimostrato la vicenda siriana…