Mentre i nostri politici, nessuno escluso, si lanciano in promesse ridicole per arruffianarsi qualche voto alle amministrative di domenica e gettano le basi per trasformare il referendum di ottobre in un voto di fiducia sul governo, l’Italia sta avvicinandosi a passi spediti verso il default. Sono purtroppo molti i segnali in tal senso e i più gravi arrivano dalla Bce, la cui politica di stimolo non solo sta fallendo miseramente, ma comincia anche a sostanziarsi in squilibri potenzialmente letali per un Paese indebitato come il nostro.
Ieri sono entrato in possesso dell’ultimo rapporto su Target2, ovvero sugli sbilanci di flussi di capitale fra le varie nazioni dell’eurozona: sono i dati di marzo e parte di quelli di aprile, già comunicati da alcune Banche centrali, tra cui Bankitalia. Bene, il nostro Paese ha un saldo negativo di -264,7 miliardi di euro, solo di poco meno negativo di quello spagnolo (-266,5 miliardi). Quindi, essendo il dato di marzo a quota 263, ecco che solo aprile ha portato a quasi due miliardi di nuovo record nello squilibrio. Cosa sta accadendo? Tutte fughe di capitali?
Stando a un’analisi di Rabobank, il Qe sta portando a una dinamica perversa: mentre la Bce sta comprando in maniera onnivora i bond sovrani dell’eurozona, gli investitori esteri rispetto ad alcuni paesi, ovvero Spagna e Italia, ne approfittano per vendere questi asset e portarsi a casa gli euro, aggravando così il bilancio Target 2. Al contrario, gli investitori spagnoli e italiani non stanno approfittando della monetizzazione del debito tedesco per portare a casa il loro denaro con lo stesso ritmo. Anzi, è possibile che approfittino per spostare altri capitali liquidi all’estero.
Già, perché una nuova fonte di flussi di capitale è emersa e pare essere il driver primario del bilancio netto negativo dell’Italia in Target2: uno scostamento netto del settore privato non bancario del nostro Paese dal debito governativo e delle banche italiane verso titoli azionari esteri e mutual funds. Facendo attenzione al grafico a fondo pagina, si nota che fino al giugno 2014 il bilancio netto di Target2 (linea blu) è stato influenzato unicamente dalla sell-off e dal conseguente riacquisto di obbligazioni sovrane del nostro Paese (la linea verde). Ma a partire da quel momento, è altro che muove al ribasso quella linea blu, ovvero sono gli investimenti del settore non bancario italiano (linea rossa) a giocare un ruolo più ampio nel portare in negativo il nostro bilancio di Target2.
Di più, negli ultimi mesi il calo può essere anche attribuito a una rinnovata, ancorché moderata per ora, fuga dai nostri titoli di Stato, dinamica che spiegherebbe il continuo, anche se per ora lento, aumento del nostro spread sovrano sul Bund. Dall’inizio di quest’anno, oltre 180 miliardi sono spostati dall’Italia verso mutual funds in Lussemburgo, Olanda e Germania. Solo il 20% di essi può essere fatto risalire a entità italiane (i cosiddetti round trip funds), ma ciò che fa paura è che la ricerca disperata di rendimento all’estero in un ambiente di tassi a zero può spiegare solo in parte questa fuga di capitali italiani verso il Nord Europa, mentre molti analisti parlano di un rinnovato redenomination risk per gli assets italiani, ovvero la percezione di rischio verso l’Italia in caso si arrivasse a un ridenominazione in valuta locale che non sia l’euro dopo una parziale rottura dell’Eurozona. Fino al 24 giugno, quando si saprà l’esito del referendum sul Brexit, questa dinamica non potrà che peggiorare.
Ma attenzione, perché potrebbe anche esserci un combinato in atto: ovvero, fuga di capitali più una dinamica differente in seno agli acquisti della Bce che potrebbe incidere sugli spread, ma anche su acquisti e vendite, quindi sugli squilibri di Target2. Ad aprile, infatti, si è verificato il taglio degli acquisti di bond sovrani periferici – nello specifico, quelli di Portogallo e Irlanda – e il parallelo?aumento di quelli emessi dai Paesi più forti, come Germania, Olanda e Francia. Non era mai successo dall’inizio della politica di acquisto dell’Eurotower: non solo perché il Qe è stato pensato proprio per aiutare i Paesi più indebitati o con i mercati più illiquidi a finanziarsi a basso costo, ma anche perché l’aumento degli acquisti di Bund tedeschi – ormai a zero o sottozero su ogni scadenza della curva dei rendimenti – è totalmente inutile per Berlino e per il mondo finanziario tedesco, già non particolarmente eccitato dal Qe e dai tassi negativi che erodono profitti delle Sparkassen.
E la dinamica è stata talmente brutale da portare il Wall Street Journal a porre questa domanda a Draghi: «Abbiamo una domanda da 80 miliardi di euro per la Bce: per quale motivo sono stati tagliati gli acquisti di bond periferici a vantaggio dei bond tedeschi??È forse perché scarseggiano i titoli irlandesi e portoghesi, o perché ne ha già troppi e non può comprarne altri?». Non è che, come vi dicevo fin dall’inizio, stanno finendo i bond eligibili all’acquisto, tanto che da giugno si comincerà ad acquistare obbligazioni corporate non finanziarie? Non è che Draghi ha fatto il passo più lungo della gamba, innalzando il controvalore degli acquisti da 60 a 80 miliardi di euro? Quando avremo a disposizione i dati di maggio, potremo avere un riscontro oggettivo e capire se davvero la platea si sta restringendo pericolosamente.
Ma attenzione, perché i bond corporate a disposizione degli acquisti dell’Eurotower hanno un controvalore totale di 470 miliardi di euro e si fa presto a fare i conti: se davvero le obbligazioni sovrane scarseggiano, occorrerà comprare con il badile ciò che il mercato offre da monetizzare. Ma se si vuole mantenere invariato l’arco temporale del Qe, allora toccherà presto trasformarsi in giapponesi e cominciare a comprare Etf: detto fatto, dopo aver distrutto i meccanismi di trasmissione del mercato dei bond sovrani e corporate, toccherà a quello azionario. Oltretutto, cui prodest tutto ciò?
I grandi emittenti corporate in Europa sono infatti le aziende tedesche e francesi, le quali hanno già beneficato in passato delle aste Tltro attraverso le loro finanziarie per il credito al consumo, ma i veri protagonisti sono le corporations americane, le quali?in maggio hanno emesso bond per quasi 240 miliardi di euro, nuovo record storico su base mensile. Se esiste il timore – fondato – che la bolla americana dei bond si trasformi presto in una bomba a orologeria per l’Europa, lo scostamento negli acquisti di aprile rappresenta un segnale da non sottovalutare. Ma non basta ancora, perché se un tempo i bassi tassi di interesse significavano per gli imprenditori un’occasione per fare investimenti in CapEx e ricerca al fine di creare nuovi prodotti, ora non è più così.
Se la logica insita nei tassi a zero e negativi era quella di incentivare le banche a fare prestiti e stimolare la domanda di credito, qualcosa non ha funzionato e, infatti, sempre da più parti si comincia a parlare di helicopter money come ultima ratio: fino a sei mesi fa, quel termine di follia keynesiana terminale era tabù anche soltanto da nominare. Viviamo in un mondo saturato di debito e le Banche centrali hanno compiuto l’errore mortale, rompendo del tutto il meccanismo di trasmissione del denaro all’interno dell’economia reale: come ci mostra il grafico a fondo pagina, basato sull’ultimo sondaggio compiuto da Intrum Justitia AB, l’84% delle 9440 aziende contattate da inizio anno ha detto che i bassi tassi di interesse non hanno cambiato le loro intenzioni di spesa rispetto al CapEx, gli investimenti fissi, un dato in aumento dal 73% dello scorso anno.
In parole povere, i tassi di interesse artificialmente bassi garantiti dalla Bce non stanno stimolando investimenti tra le aziende, limitando il loro effetto unicamente nella compressione degli spread sull’intero arco della curva di rendimento obbligazionario. Di fatto, generando gli squilibri di cui vi ho appena parlato. Ecco come ha commentato i risultati dell’indagine demoscopia l’amministratore delegato di Intrum Justitia AB, Mikael Ericson: «Con ogni evidenza, la strategia di tenere i tassi di interesse bassi per più di un anno non ha creato la stabilità che si cercava, visto che il calcolo relativo a un investimento contempla sempre le prospettive attese per il futuro. Quindi, per ottenere quel risultato sperato relativo alle spese nel CapEx bisogna che ci sia una fiducia diffusa relativa alla percezione di stabilità e prosperità: evidentemente, questo sentimento non è presente tra gli industriali. Nonostante rimaniamo ancora intrappolati in una situazione straordinaria, forse i tassi di interessi negativi non segnalano affatto stabilità o percezione della stessa».
Tradotto, Draghi ha fallito. E qui non si tratta di personalizzare la questione, come si fa in Italia con il referendum di ottobre, ma di guardare in faccia una realtà che deve far paura: nonostante il costo extra-basso del capitale, chi fa impresa non ha la minima intenzione di investire nella propria azienda, ha troppa paura del futuro. Così si preparano le basi del deserto, meglio dirlo con chiarezza. Ma qui siamo troppo impegnati a preoccuparci degli assessori a tempo della Raggi a Roma: quando arriveremo a -2% di crescita, forse capiremo che abbiamo sbagliato tutto. Ma sarà tardi. Terribilmente tardi.