L’ipotesi di fusione tra la rete ferroviaria nazionale e le strade statali, cioè l’Anas, sembra davvero stupefacente. L’argomentazione, in sintesi, si basa sulle economie di scala conseguibili da società più grandi. Ma innanzitutto tali economie dovrebbero essere verificate da soggetti terzi (trattandosi di “monopoli naturali”, è ovvio che i monopolisti vedano con favore accrescersi il proprio potere). In questo caso tali economie sono dubbie. E neppure se tali economie fossero verificate questo effetto sarebbe sufficiente a rendere desiderabile l’operazione: dovrebbe essere altrettanto certo che vengano poi trasmesse agli utenti (o ai contribuenti), e non si trasformino in rendite per i monopolisti stessi, o inefficienze, nel caso di soggetti pubblici. Questo, si badi, in un’ottica di economia pubblica tradizionale.
Ma in un’ottica più aggiornata, che è quella della regolazione economica a difesa degli utenti (o dei contribuenti), occorre fare un’osservazione ancora più stringente. L’approccio regolatorio, infatti, prescrive che i settori regolati debbano avere “la dimensione minima efficiente”. Nel settore delle infrastrutture, qualche economia aumentando le dimensioni vi potrebbe sempre essere. Ma il regolatore deve fare un compromesso ragionevole tra tali economie e il potere che le imprese regolate possono assumere, noto col termine di “clout”. Da qui la raccomandazione che le dimensioni, oltre che efficienti, debbano essere anche “minime”. Un’impresa troppo grande, infatti, assumerebbe un potere politico, anche a motivo dei voti degli addetti, della pressione dei fornitori ecc., tale che la regolazione pubblica esisterebbe solo di nome.
La spinta politica per tali aggregazioni nasce da un concetto noto come quello dei “campioni nazionali”. Una visione ideologicamente lontana da quella di un’Europa sempre meno appoggiata a difese nazionalistiche, visione che purtroppo si vede crescere in modo preoccupante in molti altri settori, fino a mettere a rischio lo stesso spirito dell’unione economica.
Nei trasporti inoltre si appoggia al tema della “reciprocità”. Poiché anche altri paesi esprimono atteggiamenti protezionistici, l’Italia sarebbe “costretta” a fare lo stesso. Ma questa posizione è sia datata che indifendibile: è stata dibattuta a lungo dopo la privatizzazione inglese di molte infrastrutture pubbliche. Le posizioni nazionalistiche sostenevano che imprese straniere “invadevano” l’Inghilterra grazie a generosi sussidi pubblici che ricevevano nei loro paesi, consentendogli così, per esempio, di aggiudicarsi affidamenti in gara con offerte più competitive (minori sussidi o tariffe inferiori per gli utenti). L’argomento conclusivo fu che se i contribuenti di un altro Paese volevano sussidiare gli utenti inglesi, si accomodassero pure.
La seconda argomentazione è ancora più stupefacente: anche l’Anas, oltre che le ferrovie, uscirebbe dai vincoli del settore pubblico, entrando in una SpA. Una SpA si noti, tutta pubblica e finanziata principalmente con denari pubblici, e comunque non esposta alla concorrenza. Un modo per aggirare i vincoli di bilancio, e consentire retribuzioni più elevate! Non sembrano necessari commenti.
Una direzione radicalmente diversa dovrebbe essere invece quella di affidare al regolatore del settore (Art, da non molto costituito) poteri che oggi non ha, al contrario di quello statunitense: intervenire in favore degli utenti/contribuenti anche sulle dimensioni (“minime efficienti”!) delle imprese regolate.