Ci risiamo, la vecchia volpe ha messo il muso fuori dalla tana. Dopo una lunga pausa, George Soros è tornato a operare in prima persona e con volumi consistenti, attirato dalle opportunità di profitto in quello che prevede sarà un periodo di difficoltà economiche globali e di conseguente riequilibrio al ribasso del mercato azionario. Il miliardario, tramutatosi in filantropo e organizzatore di primavere colorate per conto del Dipartimento di Stato Usa, si è recentemente impegnato in una serie di grandi investimenti al ribasso: il Soros Fund Management, che gestisce 30 miliardi di dollari per conto di Soros e famiglia, in vista di un tonfo dei mercati ha venduto titoli azionari e ha comprato oro e azioni di società attive nell’estrazione del metallo prezioso, di fatto il bene rifugio durante i periodi di turbolenza e che, soprattutto, tesaurizza le aspettative di crisi. 



Il suo recente approccio riflette una previsione molto più pessimista rispetto a molti altri esponenti di Wall Street e la sua visione si è incupita negli ultimi sei mesi poiché, a suo avviso, la situazione economico-politica in Cina, Europa e altrove si è fatta più intricata e divenuta ostaggio di eventi catalizzatori, come il referendum sul Brexit o le presidenziali Usa di novembre. Per quanto il mercato azionario statunitense si sia ripreso grazie alle acrobazie della Fed e ai multipli di utile per azione sostenuti dai buybacks, salendo verso livelli record dopo i problemi di inizio anno, e i mercati cinesi si siano in parte stabilizzati, Soros resta scettico a proposito del Dragone e del rallentamento della sua economia. 

Le ricadute di una qualsiasi riduzione degli investimenti cinesi avranno probabilmente implicazioni globali, ha scritto Soros in un’e-mail: «La Cina continua a risentire della fuga dei capitali e sta esaurendo le riserve di valuta estera, mentre gli altri Paesi asiatici le hanno invece accumulate. La Cina si trova ad affrontare un conflitto interno alla leadership politica, che il prossimo anno comprometterà la capacità di fare fronte ai problemi finanziari». Insomma, Soros teme per lo stato di salute del Dragone, anche perché Pechino non sembra disposta ad abbracciare un sistema politico trasparente, elemento che il finanziere ritiene necessario ai sensi dell’adozione di riforme economiche durature. 

E se alcuni investitori iniziano a prefigurare l’aumento dell’inflazione in un contesto di rialzi dei salari negli Stati Uniti, Soros continua a credere che la persistente debolezza in Cina possa esercitare una pressione deflazionistica sulle economie di tutto il mondo. Ma Soros ha ragione o torto? Temo che, come nel 1992, abbia ragione. Partiamo da un presupposto, innegabile: quando si tratta di fabbricare dati, la Cina non ha rivali. Si tratti dei dati di import ed export, dove si nascondono magicamente miliardi in fughe di capitali o delle percentuali per così dire “massaggiate” del Pil, Pechino ha una soluzione per tutto e il resto del mondo, con il tempo, ha preso coscienza di questo. L’ultima scoperta l’ha fatto Goldman Sachs, la quale in un report ha scoperto che la Cina sta operando una rappresentazione del tutto distorta del suo credito aggregato, Total Social Financing, per centinaia di miliardi di dollari, visto che non tiene conto dei flussi del sistema bancario ombra che non finiscono nell’economia. 

Ma c’è di peggio ma di confortante per le decisioni prese da Soros in fatto di investimenti. Nel suo nuovo report, infatti la Fathom Consulting avanza il dubbio che la Cina stia pesantemente alterando il dato della più critica metrica per la stabilità sociale, ovvero il tasso di disoccupazione, il quale sarebbe tre volte superiore a quello comunicato ufficialmente dagli enti governativi. Il grafico a fondo pagina ci mostra infatti come, stando a valutazioni della Fathom, l’indicatore della sotto-occupazione sia triplicato al 12,9% dal 2012, questo a dispetto del dato ufficiale, rimasto fisso al 4% per cinque anni di fila. Ed ecco la criticità: il rischio di tensioni sociali legate a un’ondata di nuovi disoccupati, nell’ordine di milioni, all’interno di un’economia deregolata. Ecco spiegato, ad esempio, perché la Cina ha recentemente ricominciato a indebitarsi, garantendo volumi spaventosi di credito all’economia: un indebolimento del mercato del lavoro che ha richiesto un immediato intervento al fine di cercare di stabilizzare la seconda economia del mondo e scongiurare sul nascere scioperi e proteste di massa. 

D’altronde, sono stati gli stessi leader del Partito comunista a sottolineare in continuazione il fatto che mantenere i tassi occupazionali stabili è la loro prima priorità e questo rende ancora più seri i dati della Fathom, visto che se i licenziamenti di massa già operati in molte aree del Paese ancora non si sono materializzati come dinamica strutturale, il numero di persone che non lavora a tempo pieno o con piena capacità è aumentato. La Cina, di fatto, ha un problema di disoccupazione nascosto dai dati ufficiali, altrimenti non si spiegherebbe l’inversione a U operata dalle autorità, finite sotto pressione e quindi tornate a più miti consigli, operando sulla leva del credito a pioggia. 

Non ci vuole un laureato in economia ad Harvard per capire che la Cina di oggi stia vivendo su una palese contraddizione strutturale, visto che i leader di quel Paese stanno contemporaneamente promettendo di tagliare l’eccesso di capacity produttiva nelle miniere di carbone e nelle acciaierie, ad esempio e di mantenere la crescita economica stabile al 6,5% quest’anno. Impossibile, di fatto e quindi ci ritroviamo a fare i conti con una realtà che vede vere e proprie fabbriche-zombie a controllo statale che vengono mantenute in vita dai governi locali soltanto per un motivo: evitare instabilità sociale a costo di gettare denaro in produzioni disfunzionali. 

Avete presente i lavori socialmente utili? Ecco, in Cina vanno oltre: fanno finanziare il business di aziende decotte dagli enti locali e chiedono ai lavoratori di lavorare metà del tempo normale e con paga dimezzata. Finora, il pannicello caldo ha retto, ma per quanto durerà? Insomma, la Cina trucca i dati e comincia ad avere un problema occupazionale. Tanto più che la compilazione del dato si basa su clamorose distonie, come quella che vede la cifra formarsi grazie alla registrazione dei lavoratori presso gli uffici dei governi locali per ottenere il sussidio di disoccupazione, peccato che questo dato non contempli qualcosa come 270 milioni di lavoratori migranti non cinesi, ma che nel Paese del Dragone ci vivono e lavorano. E se anche si va a prendere il dato disaggregato per città, il quale è visto come più accurato da alcuni analisti, appare poco credibile che negli ultimi tre anni non si sia mosso dalla percentuale del 5,1%. 

 

Insomma, ogni minima deviazione al ribasso delle dinamiche occupazionali andrebbe a toccare un nervo scoperto del Partito di governo, visto che come sottolinea la Fathom, «l’insicurezza occupazionale è un driver chiave dell’instabilità sociale, un qualcosa che le autorità cinesi devono evitare a ogni costo». E un’altra preoccupazione è quella legata alla produttività, un tema che unisce economia Usa e cinese, tanto da diventare una delle minacce peggiori. Già oggi si parla di crescita della produttività in declino, visto che il dato è risultato particolarmente debole nel settore dei servizi, uno di quelli che assorbe la maggior parte della forza lavoro. 

Poi, la bomba: il governo ha confermato che lo scorso anno la crescita dell’economia cinese è stata del 6,9%, la più debole da 25 anni a questa parte ma la Fathom ritiene che quel dato sia sovrastimato enormemente e che la percentuale reale non superi il 2%. Quindi, se fosse vero, delle due, l’una: o la Cina continuerà a creare 1 triliardo di dollari di nuovo debito ogni trimestre, come ha fatto quest’anno incurante del fatto che questo sia un ammontare pari al 10% del Pil, per mantenere calma la popolazione dei semi-occupati, oppure il rischio che lo spettro peggiore, quello dell’instabilità sociale, si materializzi salirà in maniera esponenziale. E George Soros, forse, fa leva anche su questa possibilità.