Borse in spolvero ieri: il Brexit non fa più paura, forse? Milano, addirittura, all’ora di pranzo era maglia rosa in Europa: le nostre banche sono tornate in salute e liquide in una notte? Direi di no, perché nel tardo pomeriggio di martedì è arrivata la notizia in base alla quale è ferma al palo l’offerta per l’aumento di capitale da 1 miliardo di Veneto Banca. Stando infatti a quanto ricostruito dall’Ansa, a una settimana circa dal lancio dell’operazione risultano ordini pari a poco più dello 0,1% del book, ovvero circa un milione di euro. Le richieste sono arrivate esclusivamente nell’ambito dall’offerta in opzione ai soci, mentre non ne risultano dal collocamento istituzionale. Certo, un’accelerazione è attesa negli ultimi giorni dell’offerta in opzione che si chiude il 22 giugno, mentre gli investitori istituzionali invece hanno tempo fino al 24, ma a occhio e croce toccherà al Fondo Atlante farsi carico anche di questa banche decotta e del suo inoptato. Quanti soldi resteranno in cassa, però, dopo questa ennesimo salvataggio? Basteranno per le altre banche malmesse? No. 



Eppure ieri il mercato ha festeggiato e Piazza Affari sembrava Wall Street ai tempi di Gordon Gekko. Tutto passato in 24 ore? No, tutto passato perché chi opera sa che il Brexit, a livello di mercati, si sostanzierebbe in un danno di brevissimo periodo, assolutamente contenuto dall’intervento delle Banche centrali. I timori sono altri: politicamente, il fatto che un eventuale addio britannico spalancherebbe la porta ad altri possibili abbandoni, Olanda e Paesi del Nord in testa. Finanziariamente che il mercato è completamente rotto, sconnesso e sta mandando segnali che i giornali non riportano, ma che nelle sale trading sono chiari a tutti. 



Ma andiamo con ordine. Martedì, mentre gli indici europei erano in profondo rosso, Mario Draghi è tornato in modalità whatever it takes e ha dichiarato che la Bce «è pronta a ogni evenienza». Di fatto, all’Eurotower preparano un paracadute per i mercati. «Ci siamo disposti per il peggior scenario», ha assicurato sempre martedì in un’audizione al Parlamento europeo, Danièle Nouy, responsabile della vigilanza creditizia alla banca centrale: «Abbiamo chiesto dei piani agli istituti che potrebbero più patire gli shock e li collaudiamo per essere sicuri che siano adeguati». Insomma, stanno operando un nuovo di tipo di stress test, visto che a Francoforte hanno identificato le banche che ritengono più esposte, anzitutto quelle che hanno un profilo anche britannico. È seguito un lavoro caso per caso, anche perché ha sottolineato la signora Nouy, «i rischi legati all’uscita del Regno Unito dall’Ue variano da una banca all’altra». Comunque, ha aggiunto «per le banche questo è “business as usual”: è una buona cosa essere pronti per possibili eventi previsti che potrebbero causare turbolenze; vedremo se questo lavoro servirà oppure no». Insomma, pacatezza figlia della preparazione. 

Ma in quanto potrebbe sostanziarsi il tonfo in caso di Brexit la mattina del 24 giugno? Axioma Inc. prevede non solo un tonfo della sterlina, già ai minimi da sette anni sul dollaro, ma anche un possibile calo fino al 24% delle equities quotate sul Ftse 100 di Londra. Scenario estremo forse, ma la Bank of England ha reso noto uno studio in base al quale tra marzo e aprile il controvalore di 94 miliardi di sterline è uscito dalla Gran Bretagna o è stato denominato in altre valute in preparazione proprio di una possibile uscita dall’Ue del Regno Unito. Insomma, fughe di capitali già in atto. 

La Gran Bretagna è sulle ginocchia? Il Paese è nel caos? Scene venezuelane? No. Certo, la Borsa cala, ma lo fa per altro. Lo fa perché il sistema finanziario europeo è rotto, sconnesso, fuori controllo e non per l’ipotesi che Londra faccia bye bye con la manina: lo è per questo indicatore (evidenziato dal grafico), il quale ci dice tutto riferito al Bund tedesco. 

Per quanto nessun grande giornale o tg stia dando la notizia con la giusta enfasi, tanto c’è la scusa del Brexit, quanto sta accadendo al titolo di Stato tedesco dovrebbe essere accomunato allo sbarco dell’uomo sulla Luna, all’assassinio di Kennedy o John Lennon, l’11 settembre, insomma uno di quegli avvenimenti che ti fanno chiedere: dov’ero e cosa stavo facendo quando è successo? Già, tra qualche anno i più avveduti si chiederanno dov’erano quando per la prima volta in assoluto il Bund a 10 ha portato rendimento negativo. 

Per carità, viste le mosse della Bce era una probabilità attesa, ma resta il fatto che la data di martedì 14 giugno resterà nella storia: il grafico mette in prospettiva i movimenti del rendimento del decennale tedesco a partire da inizio del 1800, in modo da mettere la questione in prospettiva. Il tutto con la Banca centrale di riferimento che sta operando con obiettivo inflazionistico al 2%! E attenzione, perché questo altro grafico a fondo pagina ci mostra come dopo mesi di relativa calma, negli ultimi tre giorni il Global Financial Stress Index di Bank of America sia salito ai massimi dalla metà della crisi dei debiti sovrani dell’agosto 2011, un aumento del 90% in 72 ore per un indice che traccia rischio cross-market, domanda di protezione e flusso di investimenti. Non c’è affatto da stare tranquilli. 

E c’è anche una motivazione tecnica al riguardo, perché tra oggi e domani a Wall Street andranno in scadenza 1 triliardo di dollari di opzioni sull’indice Standard&Poor’s 500, evento che potrebbe trasformarsi in catalizzatore della volatilità, finora bassissima rispetto allo stato di salute dei dati sottostanti. Giù lunedì, però, il Vix ha registrato una mossa rialzista molto netta e senza precedenti, non tale da provocare una sell-off ma sufficiente a far chiudere l’indice a -0,8%. Lo sbilanciamento gamma si è sostanziato finora sullo opzioni put, ma dopo la scadenza i clienti facilmente opereranno un roll sugli strike delle opzioni put al rialzo, mossa che è ampiamente a supporto di un balzo della volatilità. Inoltre, un rischio ulteriore potrebbe arrivare dal rallentamento dei buybacks operati dalle grandi aziende Usa, finora uno dei principali supporti – se non il principale – ai corsi delle equities statunitensi. 

A partire dal 2013 sono state riacquistate da corporations Usa qualcosa come 2mila miliardi di titoli, ma ora ibuybacks annunciati stanno rallentando in maniera preoccupante, visto che in base a una valutazione a 12 mesi, il loro volume è calato del 40%, un drenaggio di 250 miliardi di dollari. Parliamo di una possibile riduzione di 40 miliardi di dollari per trimestre di sostegno alle equities, quindi in caso di sell-off del mercato non si potrà più contare su uno dei cuscinetti rivelatisi finora più efficaci. E signori, stiamo parlando di un mercato che regge su fondamentali macro in base ai quali, stando all’ultima revisione operata dalla Bea, il Pil nominale Usa nel primo trimestre era a quota 18,23 triliardi di dollari, un aumento di soli 65 miliardi dal trimestre precedente e un misero +0,7% su base annua. 

Sapete però quanto credito è stato erogato – e, quindi, debito creato – dall’economia Usa per ottenere quel aumento del Pil? Qualcosa come 64,1 triliardi di dollari, un aumento di 645 miliardi dal trimestre precedente. In parole povere, nei primi tre mesi di quest’anno l’economia americana ha dovuto generare 10 dollari di nuovo debito per creare 1 dollaro di crescita economica. Avete idea di cosa può succedere in caso di improvvisa e netta inversione dei corsi azionari? Altro che Brexit.