Dall’esito dei ballottaggi capiremo quanto sarà accidentata la navigazione del governo di qui all’appuntamento più importante della legislatura: il referendum di ottobre sulla riforma costituzionale. Giovedì prossimo poi, in base al risultato di un altro referendum, quello britannico, vedremo l’entità e la durata della prima tempesta che l’Italia si trova ad affrontare. Non solo l’Italia, sia chiaro; il nostro Paese, ci assicura il governatore della banca centrale Ignazio Visco, “non rischia più degli altri”. Eppure l’Italia cresce meno, ha una produttività inferiore e un sistema bancario pietrificato che è stato colpito dalla borsa in modo pesante. Anche se le autorità fanno a gara nel rassicurare, la sensazione della gente è che siamo più fragili e, dunque, più esposti agli attacchi esterni e ai colpi della congiuntura.



L’approccio di Matteo Renzi a questa fase di incertezza politica ed economica ruota attorno alla moltiplicazione delle promesse. Ma, a differenza dagli evangelici pani e pesci che sfamarono effettivamente la folla, gli annunci renziani aguzzano l’appetito in una lunga (e talvolta inane) attesa. Celebrato l’Imu day (tra le lamentele dei comuni che vedono ridurre le loro risorse), il capo del governo ha tirato fuori un elenco lungo quasi quanto il catalogo di Leporello. Prendiamo soltanto quel che ha detto nell’incontro con i sindacati di un mese fa, che doveva segnare l’inizio del disgelo.



“Sul tavolo – ha annunciato Renzi – c’è la necessità di intervenire su pensioni minime, autonomi, ceto medio e famiglie che ancora soffrono e poi la riduzione del cuneo contributivo, la rimodulazione degli scaloni Irpef”. E ancora, entrando nel merito: “Le pensioni minime sono troppo basse, valutiamo interventi. Vanno trovate soluzioni per chi ha fatto lavori usuranti, a patto che si tratti di soluzioni che salvino i conti pubblici. Nessuno deve temere per la propria pensione, non ci sono ipotesi di lavoro sulla reversibilità. Dobbiamo capire se, nell’ambito delle regole europee e della legge Fornero, a quella categoria di persone rimaste un po’ schiacciate tra incudine e martello possiamo dare l’anticipo pensionistico, l’Ape. Ne stiamo discutendo”. Chi va in pensione prima, però, “deve rinunciare a qualcosa”. I tempi “sono quelli della legge di stabilità, cioè i prossimi 3-4 mesi”.



Tempi stretti, dunque, anche perché ci si chiede che cosa di tutto questo era implicitamente previsto nel Documento di economia e finanza e quanto era contabilizzato tra le spese correnti. Il governo ha puntato molto sugli spazi di manovra consentiti dalla flessibilità concessa da Bruxelles, ma sa bene che quei pochi decimali di punto grazie ai quali si allarga un pochino la spesa in deficit non sono sufficienti. E allora? Si parla in modo sempre più generico di rilanciare la spending review. Ma chi ci crede dopo che hanno fatto fallimento tre commissari straordinari del calibro di Giarda, Bondi e Cottarelli?

Non abbiamo intenzione di salire di grado passando da gufi a cassandre, quindi dobbiamo aspettare e vedere che cosa esce fuori nei prossimi mesi. Tuttavia, a prescindere dagli esiti delle città test che pure contano, i risultati non sono stati buoni per Renzi il quale lo ha ammesso con grande onestà. Dunque, vincerà la tentazione di rilanciare, di aggiungere altre promesse e forzare al massimo i conti pubblici. Il risultato è che a ottobre, quando bisogna presentare la Legge di stabilità, ci troveremo in un vero e proprio ingorgo di impegni di spesa, mentre la campagna referendaria, oggi già bollente, si farà infuocata.

È una narrazione (come va di moda dire oggi) scorretta, deviante, gufesca? O rispecchia i fatti? Tutti i lettori sanno che, purtroppo, è quanto di più concreto e realistico si possa mettere insieme. Renzi non accetta volentieri consigli soprattutto se non richiesti. Tuttavia, il buon senso dovrebbe spingerlo a ridurre le aspettative sparse a man bassa come il pane alla plebe durante l’impero romano, per concentrarsi su poche cose realizzabili in modi e tempi certi. Quali?

Da ogni parte arriva la richiesta di ridurre le imposte sul lavoro. Lo ha detto la Confindustria, ovviamente, e pure Banca d’Italia. È una operazione costosa, ma indispensabile non solo per accorciare la forbice amplissima con la Germania e i paesi virtuosi dell’area euro, ma anche per ridurre lo squilibrio ormai insopportabile tra le retribuzioni e gli altri redditi (le rendite ancor più dei profitti colpiti dalla lunga recessione). Anche Renzi come abbiamo visto parla di ridurre le tasse, tuttavia qualche sforbiciata a pioggia o nuove operazioni tipo 80 euro non hanno l’efficacia economica di un intervento consistente e concentrato sul lavoro.

Che non sia facile nelle condizioni attuali della finanza pubblica qualsiasi persona ragionevole è disposta a riconoscerlo (anche gli stessi sindacati). Ma si può aprire un dibattito serio e individuare la strada percorribile. Fatto questo, il governo potrebbe cercare il consenso necessario tra le forze sociali in particolare perché i partiti appaiono accecati dagli odi reciprochi (quelli esterni e peggio ancora quelli interni come dimostra la recente uscita di D’Alema a favore dei pentastellati) e sostenere, così, la propria posizione a Bruxelles. Temiamo che ciò non accadrà, quindi a ottobre la lista sarà ancora più lunga e mancheranno i soldi per la spesa.