Il primo atto del neo-sindaco di Roma Virginia Raggi ha fatto il paio con quello della sua “gemella” torinese Chiara Appendino. Ignorando le prime provocazioni (come la pretesa del presidente del Coni Giovanni Malagò di una pronuncia immediata sul progetto Olimpiadi 2024), Raggi ha puntato diritto sul terreno finanziario: “Voglio rinegoziare il debito del Comune”, ha detto, entrando perfino nel dettaglio dei “tassi d’interesse” e chiedendo “lealtà al governo”.



Il debito accumulato dal Campidoglio è “immenso”, ha sottolineato il nuovo sindaco. In effetti è ormai quasi non quantificabile: fra documenti ufficiali (soprattutto dell’ultima gestione commissariale) e media le cifre oscillano fra i 13 e i 16 miliardi. Il condizionale vale anche per le cifre riguardanti il creditore più importante di Roma Capitale: la Cassa depositi e prestiti, la cui missione storica è convogliare il risparmio postale verso gli enti locali, soprattutto per finanziamenti infrastrutturali.



Secondo Il Sole 24 Ore, la Cdp sarebbe esposta verso il Comune capitolino per 2,7 miliardi (2,2 prima del 2008), parte di un debito finanziario complessivo di 5,8 miliardi, rimborsabile fino al 2044 per la più parte a un tasso medio del 5%. D’altro canto la stessa Cdp nel 2014 ha messo a disposizione del Comune una linea di credito al 2040: l’utilizzo al 31 dicembre dovrebbe comunque andare a ripianare vecchi debiti.

La “priorità” sollevata dalla nuova prima cittadina sembra in ogni caso tanto tecnico-amministrativa quanto politica. La Cdp è controllata dal governo attraverso il Tesoro per oltre l’80%; mentre la parte restante è detenuta da un gruppo di grandi Fondazioni bancarie coordinate dall’Acri (Cariplo e Compagnia San Paolo in testa). Il presidente in carica – Claudio Costamagna, ex top manager della Goldman Sachs, sempre molto vicino a Romano Prodi e Mario Draghi – è stato designato personalmente dal premier Matteo Renzi. Il nuovo amministratore delegato, Fabio Gallia, viene dalle fila della Bnl oggi controllata dalla francese Bnp ma sempre presieduta da Luigi Abete: storica banca dell’establishment imprenditoriale romano, quello sconfitto frontalmente dalla candidata grillina.



Nel consiglio d’ammnistrazione della Cassa siedono tuttora il neo-sindaco Pd di Milano, Giuseppe Sala (premiato da Renzi per la gestione dell’Expo 2015), e Piero Fassino, ormai ex sindaco di Torino: sconfitto dalla Appendino e prevedibilmente sfrattato anche da quella presidenza dell’Anci che ha dato titolo al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan di nominarlo come consigliere Cdp per la gestione separata.

Sotto questa angolatura è più leggibile l’uno-due di Appendino e Raggi: molto mirato su un intero assetto di potere finanziario, messo istituzionalmente in discussione dai ballottaggi di domenica. Se la Raggi chiede “lealtà” al “governo della Cdp”, la Appendino preme dall’alto: sul ruolo in Cdp di Fassino e sulla nomina – oggettivamente discutibile – dell’ex ministro montiano Francesco Profumo a presidente della Compagnia San Paolo in piena campagna elettorale. Il passaggio torinese, peraltro, rischia di produrre sommovimenti assolutamente imprevedibili nell'”Italia delle Fondazioni” che è stata forse la struttura centrale del sistema-Paese negli ultimi venticinque anni.

Torino è una città unica in Italia: ha ben due grandi Fondazioni. La Compagnia è la prima azionista di Intesa Sanpaolo, la Crt è socio-chiave di UniCredit e base di un sistema di potere finora forte e ramificato come quello articolato attorno all’attuale vicepresidente UniCredit, Fabrizio Palenzona. La sorprendente vittoria della Appendino e il suo inatteso affondo iniziale sulla Compagnia ha in realtà acceso i riflettori sull’unico grande ente italiano in cui un sindaco (il Pd Sergio Chiamparino) sia transitato personalmente alla presidenza, uscendone poi per tornare alla politica come presidente della Regione Piemonte. Hanno acceso i riflettori su una fondazione dalla gestione estremamente interconnessa con il bilancio di un comune che ha sofferto problemi finanziari (anche da post-Olimpiadi) esattamente come quello di Roma. Ha fatto ricordare il Fassino intercettato del 2005 (“Abbiamo una banca”, la Bnl) e il crack di un’altra grande “fondazione Pci-Pds-Ds-Pd”: la toscana Montepaschi.

La Raggi dal canto suo, pur presentandosi con i panni di uno Tsipras presso i creditori Ue, ha puntato il dito sul sistema Cdp, già oggetto di crescenti polemiche dopo la sua “renzizzazione”. Non da ultimo, Cdp e grandi Fondazioni (cioè le due torinesi e la Cariplo di Giuseppe Guzzetti, riconfermato da poco al vertice dell’Acri) sono state protagoniste dell’operazione Atlante: cioè del salvataggio della Popolare di Vicenza cui si va affiancando quello di Veneto Banca. E il grillismo è nato sul populismo anti-bancario. È su tutto questo che  hanno deciso di “aprire la discussione”, all’istante, Chiara & Virginia. E non sarà molto facile tenerle a bada.

L’Acri di Guzzetti ha già saputo difendersi con successo dal duro attacco portato quindici anni da Giulio Tremonti (spalleggiato soprattutto dalla Lega più populista): ha incassato perfino due sentenze della Corte costituzionale sull’autonomia delle Fondazioni “enti di privato sociale”. Una barriera legale-stituzionale dietro cui, l’altra sera, si è affannosamente trincerato Profumo a Torino. Ma oggi all’autorevolezza e alla credibilità personale dell’82enne presidente dell’Acri non sembrano più corrispondere appieno le realtà di fatto: certamente non quelle che Appendino attacca a Torino e Raggi a Roma.