Oggi nel Regno Unito si tiene il referendum Brexit con il quale i cittadini saranno chiamati a rispondere al seguente quesito: “Il Regno Unito deve restare nell’Unione europea o deve lasciare l’Unione europea?”. Un quesito dagli effetti dirompenti per tutti noi sotto molti punti di vista, sia economici che politici. E che sia esplosivo, lo si è visto dalla fibrillazione dei “mercati” quando hanno via via preso coscienza dai risultati dei sondaggi che mostravano che l’opzione “uscire” prendeva sempre più quota, fino a superare, sia pur di poco, la risposta “restare”. Ora, invece, i mercati si sono un po’ acquietati, visto che il “restare” ha ripreso quota, soprattutto dopo l’omicidio della parlamentare Jo Cox. A ogni modo, siamo a un sostanziale pareggio. 



L’inquietudine dei mercati viene dalle seguenti domande che tutti i gestori, che amministrano capitali di terzi o propri, si pongono: il Brexit metterà a repentaglio l’intera Unione europea? Farà esplodere l’Euro? Chiederanno altre nazioni che attraversano un momento difficile, come la Spagna, la Grecia, e a suo modo anche l’Italia, il ritorno alla loro “vecchia” moneta nazionale? Cosa significherà questo per il mercato mondiale dei Bonds? Cosa significherà per gli investimenti già pianificati o effettuati nel Regno Unito? Si sposteranno verso altre nazioni? E in quali? E che effetti si avranno sull’occupazione? Come verranno impostati i nuovi rapporti tra il Regno Unito e l’Europa? Sarà come un matrimonio in frantumi dove “volano gli stracci” o sarà un quieto divorzio consensuale? Quali gli effetti dell’una o dell’altra opzione sull’ordinato svolgimento della vita economico-finanziaria del nostro continente? Come si vede, sono tutte domande di rilevantissimo peso.



Dicevamo un referendum dagli effetti dirompenti. Dal punto di vista economico, infatti, la maggior parte degli analisti, economisti, responsabili di organismi di ricerca o di enti pubblici sono dell’avviso che sarà il Regno Unito ad avere la peggio; ma gli effetti deleteri ricadranno anche su altre nazioni dell’Eurozona. Gli esiti del Brexit vedrebbero un deprezzamento della sterlina (che ha già toccato un -11%, per poi recuperare un po’, cosa che preoccupa molto la Boe, cioè la Bank of England), che potrebbe comportare una forte riduzione dei prezzi, in particolare di quelli dell’immobiliare del sud del Regno Unito, che sperimenta oggi una sorta di “bolla”, e a cui sono collegati parecchi mutui concessi dalle banche. E poiché anche le retribuzioni collegate al mondo dell’immobiliare sono cresciute notevolmente, i cittadini sono stati indotti a indebitarsi mediante l’utilizzo delle carte di credito, di crediti personali e finanziamenti contratti per acquistare un immobile per poi affittarlo. Per questo gli effetti del deprezzamento sarebbero recessivi; la disoccupazione aumenterebbe di circa il 2%, la borsa perderebbe una fetta del suo valore a causa delle caduta delle quotazioni delle banche; infine, la stessa stabilità delle banche sarebbe messa a rischio per perdite su crediti. 

Ricordiamo che l’Eurozona rappresenta il maggior partner commerciale del Regno Unito, verso la quale si rivolge il 50% delle transazioni commerciali e finanziarie di quest’ultimo. Bisogna, inoltre, tener conto che le transazioni finanziarie da e verso l’area continentale sarebbero fortemente rallentate dalla perdita del “passporting”, cioè di quel meccanismo che consente di vendere da parte di banche, fondi, compagnie di assicurazione, qualsiasi prodotto finanziario, o istituire una filiale in uno qualsiasi dei 28 Stati dell’Ue. Perciò, dopo l’uscita del Regno Unito, una sua banca per poter vendere un prodotto in un altro Stato Ue, occorre che richieda una nuova autorizzazione. Un processo che potrebbe richiedere mesi o anni per completarsi. Per questo, la crisi da Brexit aggraverebbe il deficit del Conto Corrente della Bilancia dei Pagamenti del Regno Unito che è già allarmante (ora oltre il -5%), poiché oltre ogni standard internazionale di sostenibilità di lungo termine. L’Ocse, infine, considera gli effetti economici di una uscita dalla Unione europea come una “tassa” sui cittadini del Regno Unito. Una “tassa” inutile e negativa poiché senza contropartita positiva (per esempio, pago una tassa per costruire un ponte). Il Brexit si configurerebbe come un effetto simil-Lehamn Brothers del 2008, anche se in misura ridotta. 

A onor del vero, qualche voce (minoritaria) dice che tutto questo allarmismo è esagerato, poiché il deprezzamento della sterlina, spingendo all’insù le esportazioni, comporterebbe dei benefici proprio sulle azioni delle imprese export-oriented, e delle banche che le finanziano. Per cui tutto questo nervosismo sarebbe legato all’incertezza del risultato, piuttosto che al risultato in sé, qualunque esso sia. Infatti, una volta acclarato, esso farebbe ripartire la borsa e costituirebbe un ghiotta occasione speculativa. 

D’altra parte, se il Regno Unito sarebbe “percosso” in caso di vincita dell’Exit, non se la passerebbe meglio la Germania, poiché il deprezzamento della sterlina, spingendo al ribasso le importazioni verso il continente, danneggerebbe proprio la Germania, le cui esportazioni verso il Regno Unito ammontano all’8% del totale, causandole una riduzione stimata dello 0,5% del Pil (Diw Institute) nel breve, e del 3% nel lungo termine (Ifo Institute). Il Regno Unito, infatti, è il terzo maggior partner commerciale della Germania. E se questo potente Paese subirà i suoi effetti negativi, a maggior ragione ne subiranno, e in misura più accentuata, le altre nazioni più deboli, come l’Italia che, ancora oggi, vede un Pil pro capite a un valore inferiore a quello del periodo pre-crisi del 2008. 

In sintesi, l’uscita del Regno Unito dall’Ue porterebbe un certo sconvolgimento economico in una area, l’Europa, che finora non ha mostrato chiari segnali di adeguata ripresa. Ma il problema non si riduce a quello economico. Esso è sostanzialmente anche politico, poiché il Brexit farebbe appello all’art. 50 del trattato Ue, articolo che prevede l’uscita di una nazione, e che non è mai stato attivato. Il timore più grosso è quello legato all’effetto domino. Ci si pone la seguente domanda: il Brexit avrà un effetto “fotocopia” in altri Paesi in cui sono presenti movimenti ostili alla permanenza del loro Paese nell’Ue, come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, e così via? 

Il referendum, peraltro, cade in un periodo molto delicato della vita europea: in Italia il Movimento 5 Stelle si è rafforzato qualche giorno fa nelle amministrative; in Spagna vi sono le votazioni proprio domenica, 26 giugno, dove il partito di estrema sinistra Podemos potrebbe rafforzarsi; in Francia vi sono continui scioperi che stanno mettendo in crisi persino le riserve strategiche di carburante; la Grecia a luglio deve rimborsare 2,3 miliardi di euro alla Bce, quale quota della ristrutturazione del suo debito; infine i flussi migratori in Europa stanno mettendo in crisi i rapporti tra i suoi Stati. Per cui, se lo spettro dell’effetto “fotocopia” dovesse materializzarsi, allora la linea difensiva messa a punto dalla Bce e Boe mediante uno swap Eur/Gbp teso a fornire liquidità illimitata alle banche in crisi si rivelerebbe, alla lunga, spuntata. Nel breve, certamente, un comunicato del tipo “what ever it takes” (cioè fondi illimitati), già usato da Mario Draghi con esito positivo il 26 luglio 2012, e che scongiurò la crisi dell’euro, potrebbe avere ancora successo. Attenzione, però, ora vi è una grande differenza. Nel 2012 “l’attacco” fu esterno, e fu sferrato da parte della speculazione internazionale (che perse) per sbriciolare l’euro. Ora, invece, “l’attacco” viene dal di dentro, dal cuore dell’Europa; e contro questo “attacco”, la Bce, ovviamente, non può nulla. 

E qui veniamo al nocciolo della questione. Il referendum Brexit nasce dal disagio nei confronti dell’accettazione “centralizzata” dei flussi migratori e dall’asfissiante normazione prodotta dall’Ue, che cozza contro lo spirito britannico piuttosto insofferente al potere centralizzato. L’ordinamento giuridico britannico, infatti, il cosiddettocommon law, nasce nelle aule dei tribunali, basato cioè sui precedenti giurisprudenziali, piuttosto che sulla base dei codici fatti da un potere centrale. Il disagio dei “bretoni”, quindi, nasce sì da questo, ma si poggia poi su un tappeto pieno di problemi irrisolti, che si ingigantiscono sempre più. 

L’Europa, infatti, che è sorta sulle macerie della Seconda guerra mondiale, e che ha garantito un lungo periodo di pace, nasce inizialmente come spazio di libero scambio di beni e servizi. E questo ha avuto molto successo in termini di sviluppo dell’area stessa. Successivamente, si volle fare un passo molto più grande con l’istituzione della moneta unica, l’euro. Un progetto ardito nella sua ispirazione, ma carente nella sua realizzazione, in quanto si vollero fare solo alcuni passi di un esteso processo, lasciandone fuori altri, di certo cruciali. Si volle, infatti, istituire una moneta unica in un territorio che vede diversi popoli, diverse culture, diverse lingue, diversi stili di amministrazione della spesa pubblica e, soprattutto, diversi livelli di produttività. 

Si volle istituire un’unica politica monetaria, senza alcuna sostanziale devoluzione di sovranità nazionale e, dunque, senza una politica fiscale comune. Furono proprio queste carenze concettuali strutturali che suggerirono, saggiamente, al Regno Unito di aderire all’Ue senza però adottare l’euro. Queste carenze strutturali hanno prodotto un “mostro” che non poteva non generare altri “mostriciattoli”, che sono gli attuali squilibri di finanza pubblica che vediamo tra i Paesi dell’Eurozona, e che minano le fondamenta dell’euro stesso. In questo scenario, la Bce può solo “comprare tempo”, cioè può solo attuare misure tampone, che però non risolvono i problemi. Oggi, infatti, con l’ultima misura attuata, la Bce è già ” fuori” con circa 1 trilione di euro; ha saturato di domanda il mercato dei bond governativi e corporate IG; ed è contestata da alcuni Paesi, come la Germania, per questi suoi esperimenti di politica monetaria dei tassi negativi che stanno “distruggendo” le banche. Per cui, in caso di crisi da Brexit, nuove misure da parte della Bce (linea swap di cui sopra, e ulteriore acquisti di titoli) non potrebbero che esacerbare la situazione e la pressione critica dei Paesi di cui sopra. 

Allora, dopo questa breve sintesi delle problematiche attuali, si capisce bene che il referendum per il Brexit ha solo scoperchiato una pentola piena di problemi che “bollono” oramai da tanto tempo. Problemi molto grandi e difficili da risolvere, e che vanno al cuore dell’Europa. 

Pertanto, da una parte, i cittadini del Regno Unito dovrebbero pensare a quello che si è creato con l’Unione europea, al periodo di lunga pace di cui abbiamo beneficiato, alla possibilità di affrontare i problemi planetari alla pari degli Usa, della Cina, dei Paesi Brics; dall’altra, anche noi europei “continentali” dobbiamo capire che un’Europa asfissiante dal punto di vista della produzione normativa, che a volte sfiora il ridicolo, tanto è tesa a regolamentare nel minuto la nostra vita quotidiana, non porta da nessuna parte. E, soprattutto, rimangono irrisolti i problemi “core” dell’Europa che sono la decisione sulla devoluzione della sovranità nazionale e della relativa politica fiscale. 

Senza risolvere questi problemi, anche un risultato che certificasse il “remain” del Regno Unito nell’Ue, significherebbe solamente spostare più in là il redde rationem sulla esistenza futura dell’Europa.