Cosa vi avevo detto ieri riguardo al fatto che nessun mezzo di informazione autorevole avrebbe dato con interezza la notizia sulla decisione della Corte costituzionale tedesca relativa al programma Omt della Bce? Ormai il meccanismo è consolidato, si prende la parte che interessa, quella che fa comodo per dimostrare che Mario Draghi è un genio e non sbaglia mai, la si dà in pasto ai lettori e si evita accuratamente di raccontare in realtà le cose come stanno. Lo stesso è accaduto sempre ieri relativamente alle dichiarazioni dello stesso Draghi e di Janet Yellen riguardo alle aspettative legate al referendum sul Brexit che si tiene oggi in Gran Bretagna. 



Partiamo dal numero uno dell’Eurotower, il quale parlando di fronte al Parlamento europeo ha dichiarato che «la Bce è pronta a qualsiasi evenienza. È difficile prevedere l’impatto di un eventuale Brexit sui mercati e sull’economia e sarebbe difficile anche speculare su un risultato in questo momento. Ma sono stati fatti tutti i preparativi, abbiamo strumenti e accordi di liquidità e linee di swap esistenti insieme ad altre banche che possono essere utilizzati se necessario». Nulla di nuovo. Peccato, però, che gli europarlamentari non abbiamo sfruttato l’occasione di avere Mario Draghi ospite per chiedergli conto anche di qualcos’altro, ovvero di quanto rappresentato nel primo grafico a fondo pagina: pare infatti che ci sia qualche rognetta da grattare a Francoforte, visto che il bilancio della Bce ha raggiunto proprio martedì un nuovo record assoluto, superando il picco che si raggiunse nel 2012 e il tutto mentre il buon Draghi sta per lanciare il nuovo ciclo di aste Tltro, altro fattore di espansione delle stato patrimoniale. 



Il mercato ci cascherà come fece nel 2011-2012? Difficile crederci, visto che ora la dinamica in atto è brutta: dato che attraverso l’espansione del bilancio la Bce non è riuscita a creare nessun guadagno economico reale, il calo del prezzi delle azioni che si sta sostanziando lascia Draghi nelle stesse condizioni della Yellen, identiche: ovvero, totalmente impotente. E se per caso vince il Brexit e arriva il tonfo? Ma no, perché disturbare il manovratore con domande scomode, meglio lasciarlo nel suo ruolo di incantatore di serpenti, tanto da permettergli di dire, tra gli applausi dell’uditorio, che «l’azione della Bce sta mettendo la ripresa su un binario più solido, visto che senza l’operato della Banca centrale crescita e inflazione sarebbero più basse». 



Perfetto, ora guardate il secondo grafico e ditemi se sbaglio a chiedermi la seguente cosa: se senza l’azione della Bce inflazione e crescita sarebbero più basse, visti i risultati che stiamo ottenendo, quanto è davvero più seria di quanto ci dicono la situazione dell’economia europea? Va beh, facciamo finta di niente. 

Cos’ha detto invece la numero uno della Fed? Anche per Janet Yellen, «gli effetti di un’eventuale Brexit sono difficili da prevedere», ma è certo che getterebbero l’economia mondiale in un’era di forte incertezza che potrebbe avere «ripercussioni significative anche sulla ripresa degli Stati Uniti, pur escludendo il rischio di recessione». E qui c’è poco da dire, la Yellen ha ragione: non sarà certo la Brexit eventuale a spedire gli Usa in recessione, visto che ci sono già. 

In parte la Yellen ha ammesso le difficoltà attuali dell’economia Usa, quando ha detto che «la Brexit è infatti solo una delle pesanti incertezze nell’outlook economico», fra cui spiccano la flessione della produttività degli Usa e il rallentamento della Cina, che deve ancora affrontare «sfide considerevoli nel ribilanciare l’economia verso la domanda domestica e i consumi piuttosto che farsi guidare dalle esportazioni». Insomma, addio a un rialzo dei tassi prima del 2017. E ci mancherebbe altro, visto che la numero uno della Fed, forse per non annoiare troppo i suoi interlocutori, non è voluta scendere nei dettagli di quanto sta accadendo, ma io non ho di questi scrupoli e lo faccio. 

La produzione industriale Usa è calata per 9 mesi di fila, una stringa temporale mai registrata al di fuori di un periodo di recessione ufficiale. I fallimenti commerciali sono saliti per sette mesi di fila su base annua e oggi sono a +51% rispetto allo scorso settembre. Il tasso di mancati pagamenti su prestiti commerciali e industriali sta salendo senza sosta dal gennaio 2015, mentre il dato totale delle vendite (in un’economia in cui i consumi pesano per il 70% del Pil) sta continuando a calare da metà del 2014. Nel solo mese di aprile si è registrato un -2,9% su base annua, arrivando a 1,28 triliardi di dollari, lo stesso livello dell’aprile 2013. Gli ordinativi industriali stanno calando da 18 mesi di fila, mentre i’indice Cass Shipping sta calando su base annua da 14 mesi di fila e la produzione di carbone è al livello più basso da 35 anni a questa parte. Il tracciatore interno dell’economia Usa di Goldman Sachs è sceso ai livello più basso dall’ultima recessione, mentre gli indicatori recessivi di JP Morgan sono saliti al livello più alto dal 2009. Il Labor Market Conditions Index della Fed sta calando da 5 mesi di fila e i dati sull’occupazione dello scorso mese sono i peggiori da 6 anni a questa parte, mentre stando a dati della Challenger, Gray & Christmas, il numero totale di licenziamenti annunciati dalle aziende è in aumento su base annua del 24%. Per capirci, Bank of America, la principale banca commerciale Usa, ha annunciato il taglio di altri 8mila posti di lavoro, mentre la catena di grande distribuzione Wal-Mart taglierà posti di back-office in 500 punti vendita. 

Ecco la situazione economica degli Usa, di fatto una recessione bella e buona se non in atto, sicuramente ai suoi prodromi già conclamati. Ma anche in questo caso, i giornali e i tg si sono ben guardati dal raccontarvi la cosa più importante emersa dalle parole della Yellen. Ovvero, questo: «Le ratio dei multipli di utile per azione sono sopra la media a 30 anni, quindi i titoli sono vulnerabili a un premio di ritorno alla normalità sul termine». In parole povere, ciò che vi dico da mesi e mesi: il denaro a costo zero della Fed ha garantito emissioni a costo zero con le quali le corporations Usa hanno operato enormi buybacks azionari, i quali hanno mantenuto alte le valutazione e spinto i multipli a 12 mesi verso livelli da manicomio. 

Volete un esempio? Guardate questo grafico, il quale ci mostra come la media del multiplo di utile per azione de settore energetico sia 15.8x, mentre quella attuale è 97x per le azioni di quel settore quotate sullo Standard&Poor’s 500! Miracoli delle Banche centrali! Ora, però, c’è la scusa comoda del Brexit per giustificare un eventuale crollo azionario, tanto che nessuno sembra voler scomodare una sola critica nei confronti di Bce e Fed e si occupi soltanto di quanto decideranno sovranamente oggi i cittadini britannici. 

A proposito, cosa ci dicono gli ultimi sondaggi? Le ultime rilevazioni sono a favore del Remain, visto che per il Daily Telegraph il 53% vuole restare nell’Ue, mentre il 46% è per l’addio. Solo la scorsa settimana le percentuali erano praticamente invertite, a favore del Leave, ma nel frattempo c’è stato lo strano attentato in cui ha perso la vita la deputata laburista Jo Cox, un bel decisions mover a favore della campagna europeista. Ovviamente, non c’è nulla di oscuro dietro e si tratta unicamente di una coincidenza temporale fortuita: credeteci, come vi invito a credere che il voto austriaco non sia stato viziato da brogli e che domenica prossima la Spagna finalmente avrà una maggioranza di governo chiara. Anche i bookmakers, i veri termometri dell’opinione pubblica, ritoccano al ribasso la quota per l’ipotesi che il Regno Unito resti in Europa, con PaddyPower.it che offre il Remain a 1,26 e l’uscita dall’Ue che sale a 4 volte la scommessa. 

Ma il rischio di Brexit è tuttavia troppo grande per poter essere ignorato, almeno da chi opera sul mercato. Stando a Valentijn van Nieuwenhuijzen, responsabile multi asset di NN Investment Partners interpellato da Cnbc, «l’azionario europeo e quello britannico potrebbero perdere fino al 10% e i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi core europei potrebbero scendere ulteriormente», anche se è molto difficile fare una stima precisa delle possibili conseguenze economiche di un’uscita del Regno Unito dall’Ue, poiché diverranno più chiare solo nel lungo periodo. Le conseguenze politiche, invece, sono potenzialmente considerevoli. Al contrario, «un voto a favore della permanenza sarà probabilmente seguito da un rally sui mercati, legato a una sensazione di sollievo e da un’inversione di tendenza negli investimenti in beni rifugio». 

Ormai è soltanto questione di poche ore e sapremo cosa hanno deciso i britannici, i quali hanno vinto comunque vada a finire, perché hanno potuto decidere democraticamente del loro destino. Ma, che sia Brexit o meno, non fatevi infinocchiare per l’ennesima volta: lo stato di salute dell’economia non è affatto migliorato, anzi e i mercati azionari sono in bolla totale, così come il mercato obbligazionario sovrano che trada su rendimenti negativi. C’è un combinato potenziale in grado di tramutare il 2008 in una passeggiata nel parco, ma sicuramente Draghi e la Yellen sapranno risolvere la situazione un’altra volta. Calciando il barattolo lungo la strada, sperando di guadagnare tempo e che un miracolo rimetta tutto a posto. Ma il tempo sta finendo. E il voto di oggi potrebbe davvero sancire la fine della ricreazione.