Come sarebbe stata Londra nel day after di Brexit non è difficilissimo immaginare: piena di banchieri e avvocati con le valige in mano, scegliete voi se diretti a Dublino, a Parigi, a Francoforte, oppure direttamente verso Dubai o Singapore. E con loro — ma non tutti — chef stellati e quant’altri cortigiani assortiti della City, in esodo forse neppure troppo drammatico verso luoghi più tranquilli e redditizi nel mondo globalizzato.



Sarebbe stato l’esatto contrario del glorioso V-Day del 1945, in Trafalgar Square. Una capitale ancora abitata dalla sovrana più longeva nella storia dell’impero britannico, nel 2016 si sarebbe ritrovata clamorosamente offshore rispetto ai suoi possedimenti anglofono e anglofilo: orfana perfino delle “relazioni speciali” con gli Stati Uniti, oggi affascinati del Citizen Donald Trump For President. 



Eppure poteva finire così, non solo con il sollevato senno di poi: e c’è voluto il brutale murder politico di Jo Cox (non in the cathedral ma in the street) per garantire il successo al Remain già nei sondaggi a urne aperte. Ma chi avrebbe scommesso — due settimane fa — sulla vittoria schiacciante del Movimento 5 Stelle nelle elezioni comunali della capitale italiana e della terza metropoli della penisola? La cronaca-storia è più complicata delle discussioni politologiche.

Cambia poco (per ora) con le trentenni Virginia Raggi e Chiara Appendino all’assalto — nei fatti — di establishment politico-finanziari nazionali consolidati fin dal termine dell’ultima guerra mondiale. E cambia poco (per ora) dopo la sconfitta di misura di Brexit. Anche undici anni fa, l’Europa sembrò trattenere il respiro sul referendum consultivo francese sulla Costituzione Ue: vinsero i pro-Ue al 54%, ma in gioco — almeno allora — non c’era davvero l’asse carolingio su cui l’Europa si regge da sessant’anni. Simmetricamente, ciò che oggi era effettivamente in gioco in Gran Bretagna lo resta: anzitutto il rapporto fra la City di Londra e il “resto della Britannia”, di cui la devolution sempre in cottura in Scozia è solo una propaggine. 

La questione — già sollevata da ripetuti sabati turbolenti a Londra — non è la compatibilità storicamente difficile fra le Isole d’Oltremanica e il Continente. Al contrario la Gran Bretagna non è forse mai apparsa così integrata nel disagio europeo come in questo interminabile dopo-crisi, che ha avuto come data d’origine il crack di una banca di Newcastle nell’estate 2007 (e nei primi giorni di questa settimana si sono riviste code agli sportelli finanziari inglesi per acquistare euro…).

L’implosione disgregativa dell’ordine finanziario di mercato da un lato; e dall’altro la reazione dell’Europa continentale (ma in realtà della sua tecnocrazia sovranazionale) a colpi di regole, soprattutto di divieti e sacrifici: non c’è troppa differenza fra l’inquietudine dei non-londinesi dopo aver visto le mega-banche della City salvate dallo Stato assieme ai megabonus dei banchieri, la rabbia dei giovani italiani disoccupati, l’estenuante paralisi elettorale in Spagna, fors’anche il riemergere dei malesseri profondi nella società tedesca.  

Del resto è tutto nato da libere elezioni in Inghilterra nel 1979: Margareth Thatcher decretò la fine della welfare economy keynesiana. Brexit 2016 è giunta a un solo passo dall’aprire la crisi istituzionale indotta dagli squilibri del neo-liberismo globale. Ma il problema — questo problema — rimane. E non riguarda la nebbia sulla Manica. Riguarda le valige (piene) dei banchieri pronti a partire senza problemi se ieri sera avesse vinto il Leave.