Nei giorni che hanno preceduto e seguito la consultazione referendaria sulla Brexit ho avuto l’opportunità, per non dire la fortuna, di trovarmi coinvolta in incontri che mi hanno confermato come esista non solo la possibilità, ma anche la voglia di pensare al futuro in termini diversi, soprattutto per quanto riguarda il business. 



Da diversi anni seguo con attenzione e mi occupo dell’evoluzione della responsabilità sociale d’impresa e quando ho occasione di incontrare studenti e giovani cerco di spiegare (ma faccio davvero poco fatica perché sono molto sensibili al tema) come la reputazione abbia un impatto molto forte sulla profittabilità delle aziende. Oggi, secondo le ultime analisi di Reputation Institute, i clienti scelgono di acquistare un bene per il 61% in base ai valori (etica, trasparenza, Csr) dell’impresa, mentre qualche anno fa il driver principale era il prodotto. 



A San Marcello Pistoiese, dove ha sede Dynamo Camp (la struttura di terapia ricreativa per bambini e ragazzi colpiti da patologie croniche), all’inizio della settimana ci siamo confrontati per un giorno sul tema “Business for the Common Good” e Christopher Nurko, Global Chairman di Futurebrand, ha confermato come la generazione dei Millennial scelga sempre più in base al comportamento etico e sostenibile delle aziende. Non basta più offrire prodotti buoni o eccellenti per avere successo. Serve essere percepiti come realmente legati a dei valori. Concetti ribaditi qualche giorno dopo ad un convegno di Unipol da Patrick O’Sullivan, Senior professor alla Grenoble École de Management: “Una tesi centrale oggi — ha spiegato O’Sullivan — è che il business in generale e specialmente il settore finanziario hanno bisogno di cambiare in modo fondamentale, così come devono mutare le politiche dei governi e le regole del business e della finanza. Tutti i settori hanno bisogno di diventare più etici e sostenibili”. E ancora: “Molte delle idee per un capitalismo più etico e socialmente responsabile si cristallizzano intorno al concetto di sostenibilità”. 



Questi concetti portano facilmente a comprendere perché dialogare oggi sul tema del capitalismo morale è abbastanza naturale, quando non inevitabile. Se passiamo dalle aziende ai Paesi, il contesto rimane lo stesso. José Manuel Barroso, ex presidente dell’Unione Europea ed ex primo ministro portoghese, ha ricordato nel corso del convegno svoltosi al Dynamo Camp come “La filantropia è nata in Europa e i primi ospedali, intesi nel modo moderno del termine, sono sorti in Italia. Quello che manca oggi in Europa è la Corporate Philantropy, un settore che invece è molto sviluppato negli Stati Uniti”.  

Ma qual è la connessione tra questo aspetto e la crisi attuale dell’Unione Europea? “Innanzitutto — ha spiegato Barroso — va ricordato che la crisi economica che abbiamo vissuto negli ultimi anni non è dipesa dall’Europa, ma è partita dagli Stati Uniti. Detto questo, è evidente che dobbiamo ricreare un clima di fiducia nei mercati e fare le riforme. Ma dobbiamo anche fare qualcosa per la società. Ci sono ancora tanti poveri e dobbiamo provare a cambiare la loro condizione. In passato, quando ero presidente della Commissione europea, abbiamo provato a creare dei programmi per affrontare questo problema ma non hanno funzionato soprattutto per le differenze di vedute tra nord e sud Europa. I paesi del Nord, in primo luogo la Germania, hanno bloccato le politiche comuni in tema di sussidiarietà rivendicando la necessità che ogni singolo paese gestisse i suoi problemi, rifiutando un’ottica comune e condivisa”. 

Quando ho visto i risultati del referendum nel Regno Unito, queste parole sono tornate prepotentemente ad affacciarsi nei miei pensieri. L’Europa dei popoli al posto di quella dei burocrati e delle regole non è uno slogan da campagna elettorale, ma probabilmente l’ultima possibilità di costruire un legame serio e solido tra i 27 paesi rimasti nella Ue. “La Corporate Philantropy e la Venture Philantropy — ha proseguito Barroso — rappresentano la strada per andare verso il futuro e questo modo di pensare deve diventare parte della nostra business strategy. Se vogliamo mantenere un mondo aperto e una società aperta, dobbiamo evitare i populismi e migliorare. E questa è una responsabilità dei governi europei. Dobbiamo uscire dalla logica del Gdp (Gross domestic product, ndr). Dal 2006 al 2013 il Gdp europeo è cresciuto del 2% ma nello stesso arco di tempo la ricchezza delle famiglie è calata del 5,5%. Quale pensate che sia il dato più rilevante per le persone?”. 

Nelle ore e nei giorni che seguono il risultato del referendum inglese, penso che sia doveroso per ognuno di noi, per le imprese e per l’Europa intera interrogarsi su questi temi e avviare un cammino serio e comune verso una concezione diversa del business. Verso un mondo che, continuando a generare profitti, sappia investirli nella società in un’ottica di sviluppo sostenibile di cui possano beneficiare tutti. 

 

PS. Mentre scrivo queste righe i cittadini britannici stanno raccogliendo le firme per rifare il referendum sulla Brexit e le adesioni crescono a ritmi vertiginosi, circa 100 mila all’ora (per un aggiornamento vedere https://petition.parliament.uk/petitions/131215). Non è vero che non c’è più voglia di Europa. C’è voglia di un’Europa diversa.