Ricordate che vi ho messo in guardia rispetto a un attacco contro l’Italia che sta per partire con l’estate? Bene, il Brexit e le sue conseguenze sui mercati ne hanno dato la conferma, ma, ancor di più, quanto emerso dal Consiglio Ue di mercoledì. La Germania ha infatti bocciato su tutta la linea l’ipotesi avanzata dal governo italiano di sostegno più o meno diretto alle banche del nostro Paese, rendendo chiaro che il meccanismo del bail-in non è in discussione, quindi in caso di ricapitalizzazioni, pagano anche obbligazionisti e correntisti sopra i 100mila euro prima che lo Stato possa sborsare un euro. «Non si possono cambiare le regole ogni due anni», ha attaccato la Merkel, tutt’altro che diplomatica.
Detto fatto, un innervosito Matteo Renzi, nel corso della conferenza stampa post-vertice europeo, ha reagito: «Devo confermare quel che ha detto Angela Merkel: nessuno di noi vuole cambiare le regole, sono state cambiate nel 2003 per superare il tetto del 3% e Berlusconi accettò di violare le regole per fare un favore a Francia e Germania. Noi abbiamo grande capacità di rispettare le regole e continueremo», ha attaccato il primo ministro. «Gli ultimi a non rispettare regole sono stati i tedeschi», ha chiosato velenoso Renzi, ricordando come sempre la Germania abbia speso 240 miliardi di denaro pubblico per puntellare il suo sistema bancario nel 2010-2011. «Allora si poteva, oggi non si può più», ha detto il premier italiano, citando i nomi di chi avrebbe potuto agire in tal senso e non l’ha fatto: Berlusconi, Monti e Letta. Come dire, cari italiani, ora sapete con chi prendervela.
Stando alla Bank Recovery and Resolution Directive, infatti, «il supporto finanziario pubblico straordinario si sostanzia quando la banca fallisce o sta per fallire e quindi si innesca il bisogno di risoluzione». Insomma, siamo al paradosso, ma anche alla dichiarazione di guerra: questo perché se da un lato tutti i leader, Angela Merkel in testa, parlano del Brexit come un evento traumatico ed eccezionale, dall’altro questa definizione della situazione non vale per le banche, visto che negare la sospensione del bail-in significa implicitamente negare che l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue sia una «circostanza eccezionale».
Per poter operare in sostegno delle nostre banche servirebbe quindi una crisi più grande del Brexit, stando ai desiderata e alle imposizioni tedesche: il problema è che i nostri istituti di credito hanno 200 miliardi nozionali di esposizione ai non-performing loans e un carico spaventoso di detenzione di debito pubblico. Le prime richiedono accantonamenti ulteriori e aumenti di capitale se il settore resterà sotto pressione, mentre le seconde diventano potenziali bombe a orologeria se riparte la danza macabra (al rialzo) dello spread.
Ci penserà ancora Mario Draghi? Difficile, perché l’esponente della Bce, Benoit Coeure, sempre mercoledì, si è detto contrario alla sospensione delle regole del bail-in, perché segnerebbe la fine dell’unione bancaria europea e richiederebbe che le autorità di vigilanza bancaria fossero molto più invadenti. «Se non ci fosse una disciplina interna al mercato, tutto il peso di fornire gli stimoli corretti ricadrebbe sulle autorità di vigilanza bancaria che, di conseguenza, diventerebbero molto più invadenti», ha detto Coeure al forum Bce di Sintra, in Portogallo. «Se oggi si sospendessero le regole sul bail-in, se questo è il passo che si vuol fare, si verificherebbe la fine dell’unione bancaria come la conosciamo», ha precisato.
Di fatto, la stroncatura di quanto avanzato dal governo italiano, sia attraverso Padoan che attraverso il suo vice, Enrico Zanetti, a detta del quale non si tratta di violare le regole europee, «ma, in caso di crisi sistemiche, ci possono essere delle deroghe, che devono essere concordate nel quadro europeo e non costituirebbero una violazione». A detta di Coeure, no. E la questione dell’eccezionalità del momento è tutto tranne che di lana caprina. Il governo italiano starebbe infatti trattando con la Commissione europea il via libera al lancio di un nuovo fondo di stabilizzazione delle banche, il cosiddetto Fondo Atlante 2, di fatto privato perché capitalizzato dalle stesse banche del nostro Paese. Il problema è che la Cassa depositi e prestiti dovrebbe essere il regista dell’operazione e il suo eventuale intervento potrebbe non essere trattato come aiuto di Stato dall’Ue solo per un periodo temporaneo, ma proprio in base al criterio di deroga relativo all’unicità della situazione. Ma se questa non viene riconosciuta da Germania e Bce, non se ne può fare nulla.
Ci sono poi i numeri a pesare: Atlante 2 avrebbe, nelle intenzioni, una base di 4-5 miliardi di euro per intervenire a sostegno di eventuali nuovi aumenti di capitale delle banche italiane e acquistando sofferenze del sistema bancario, peccato che l’altro giorno Intesa Sanpaolo abbia già detto che non metterà un euro in più nel fondo rispetto a quanto già versato. Chi caccia i soldi, volgarmente parlando, il credito cooperativo di Codazzo? Capite da soli che o Intesa e Unicredit sborsano ancora, cosa improbabile oppure l’intervento statale attraverso Cdp è fondamentale. Anche perché, ripeto, i numeri sono impietosi: Atlante, con una capitalizzazione iniziale di 4,25 miliardi di euro, dopo aver utilizzato 1,5 miliardi per l’aumento della Popolare di Vicenza, ha 2,75 miliardi residui da utilizzare per i non-performing loans. Calcolando l’impegno da 1 miliardo per Veneto Banca, resterebbero 1,7 miliardi di euro. Che si fa? O si scomoda la finanza creativa e si opera a a leva di 8 volte con quanto rimasto in cassa ad Atlante, come suggerisce uno studio di Mediobanca Securities o tocca far nascere e in fretta Atlante 2.
La prima opzione potrebbe garantire l’acquisto al massimo 15 miliardi di non-performing loans lordi, stando a calcoli di Mediobanca Securities, meno del 10% del totale incagliato nel sistema bancario italiano, mentre la seconda – calcolando una disponibilità di 4-5 miliardi di euro – permetterebbe il deconsolidamento di 30-40 miliardi di non-performing loans lordi. Insomma, binario morto. E occorre correre, perché lo schermo della Bce potrebbe non durare ancora per molto, tanto più che Germania e Banca centrale sembrano aver bocciato sul nascere altre ipotesi di intervento del governo, come il rilascio di garanzie pubbliche su bond o subordinati o iniezioni di equity da parte di organismi quasi pubblici nell’interesse generale nazionale.
E che ci sia il rischio della riproposizione di un’estate come quella del 2011 lo conferma anche l’asse involontario nato nel vertice europeo di mercoledì fra tre dei protagonisti (in negativo) di quel periodo, ovvero Italia, Spagna e Portogallo. All’epoca fu l’estate dei Pigs questa potrà essere quella dei Pis. Non è un caso che, per evitare di scendere troppo nei particolari negativi, Matteo Renzi in conferenza stampa abbia detto che la questione bancaria non era il agenda al vertice, ma lo erano i deficit di Spagna e Portogallo, entrambi sopra il 3% e quindi a rischio di procedura di infrazione da parte dell’Ue. Matteo Renzi non ha avuto dubbi su quale schieramento scegliere: «Io sto con Spagna e Portogallo», ricordando poi gli sforzi effetti di abbattimento e consolidamento del deficit fatti dai due Paesi negli anni della Troika.
Nasce l’asse del Sud? Una cosa è certa, sia Spagna che Portogallo non accetterebbero facilmente sanzioni per lo sforamento del 3% e per ragioni più politiche che economiche. Solo domenica scorsa, infatti, il “Blocco di sinistra”, alleato fondamentale del Partito socialista portoghese al governo, ha detto chiaramente che il Paese potrebbe considerare l’idea di indire un referendum sull’Unione europa in caso la stessa Ue decidesse di imporre sanzioni o aprire procedure di infrazione relativamente alla legge finanziaria dello scorso anno. E la pressione che gli alleati stanno ponendo sulle spalle del premier, Antonio Costa, è davvero tanta, visto che Caterina Martins, leader di “Blocco di sinistra”, si è così espressa al riguardo domenica: «Se la Commissione Ue aprirà una procedura di infrazione contro di noi, allora vorrà dire che la Commissione ha dichiarato guerra al Portogallo».
E la Spagna? Fresco di rielezione, sempre a margine del vertice di mercoledì, Mariano Rajoy ha lanciato un segnale molto chiaro a Jean-Claude Juncker, il quale prima di incontrare la premier scozzese, Nicola Sturgeon, aveva dichiarato che «la Scozia ha vinto il diritto di essere ascoltata a Bruxelles», chiaro sgarbo del presidente della Commissione Ue al governo inglese di David Cameron, tornato in patria la sera prima e non presente a quello che è stato il primo vertice a 27 dell’Unione. Interpellato sulla possibilità di negoziati con la Scozia, la quale vuole restare nell’Ue, Mariano Rajoy è stato categorico: «Se il Regno Unito esce, la Scozia esce». Il motivo di tanta nettezza? Creare un precedente simile aprirebbe il vaso di Pandora di tutte le rivendicazioni indipendentiste, quelle di baschi e catalani in testa. Insomma, confusione allo stato puro. L’ambiente più pericoloso in cui affrontare il mercato estivo con istituti bancari traballanti.
Italia-Germania, quella che conta davvero, è stata giocata mercoledì a Bruxelles e abbiamo perso. E nella speranza di asfaltarli dopodomani a Bordeaux, prepariamoci a scossoni di quelli davvero seri. Per quanto io odii qualsiasi declinazione di inciucio politico, questo è il momento della responsabilità, è il momento di isolare le follie M5S e fare quadrato per il Paese: non si tratta di un Nazareno 2.0, non si tratta di puntellare Renzi al potere, si tratta di tutelare il nostro risparmio e il sistema produttivo. Si tratta dell’Italia stessa.