Le elezioni comunali 2016 sono il primo appuntamento di un lungo processo elettorale che si concluderà in ottobre: dalle città alla riforma costituzionale, per Matteo Renzi è una vera maratona. Lunghi mesi di campagna, mesi di promesse, mesi di impegni che prima o poi andranno mantenuti almeno in parte. Da questo semestre bollente emergerà vincitore un solo partito, un partito trasversale e imbattuto: il partito della spesa. Lo dimostra del resto la stessa propaganda per le amministrative.



Tutti i sindaci futuri, di qualsiasi orientamento politico, si trovano di fronte a un problema comune: i bilanci municipali, che sono sballati, chi più chi meno. Ci sono città in bancarotta (e non solo finanziaria) come Roma, altre fatiscenti e non amministrate, come Napoli, alcune più funzionanti altre meno, ma per tutte vale la vecchia battuta del vecchio sindaco Ernesto Nathan che amministrò bene Roma dal 1907 al 1913: non c’è trippa per gatti. Le difficoltà finanziarie dei comuni non possono più essere coperte a livello nazionale e nello stesso tempo nessun comune è in grado ai aumentare le imposte e i prezzi dei servizi fino al punto da portare i conti in ordine. Questa è la realtà, pur con le dovute differenze. C’è qualcuno che l’abbia detto con chiarezza e onestà? Nessuno. Nemmeno il Movimento cinque stelle. La spesa comunale si risana, per i pentastellati, risparmiando sui gettoni di presenza.



Per avere un’idea del dissesto trasversale, bisogna leggere lo studio di Ernst & Young su Roma: Francesco Rutelli entra in carica quando il debito è a 3,6 miliardi e lascia quando è salito a 5,9. Il suo successore, Walter Veltroni, aggiunge un altro miliardo e 21 milioni, e porta il debito a 6,95 miliardi. Nel 2008 arriva Gianni Alemanno e il debito sale a 22,5 miliardi nel 2010, per poi scendere a 14,1 miliardi nel 2014 e a 13,6 miliardi oggi, dopo il passaggio di Ignazio Marino. Per evitare il default il governo Renzi ha varato il decreto Salva Roma ter che prevede ogni anno, fino al 2048, un salvagente di 500 milioni, 300 a carico dello Stato e 200 a carico dei contribuenti romani. Nessun sindaco, finora, ha messo mano agli sprechi che, secondo uno studio di Daniele Frongia funzionario Istat e presidente della Commissione speciale per la riforma della spesa di Roma Capitale, ammontano a un miliardo e 101 milioni l’anno.



In Italia ci sono ottomila aziende municipali la cui efficienza è nettamente inferiore a quella delle aziende private dello stesso tipo, come dimostra uno studio citato nell’ultima relazione della Banca d’Italia. E ci sono aziende comunali che danno scandalo come le romane Ama (rifiuti) e Atac (bus e tram). Ebbene Virginia Raggi, la candidata grillina, ha annunciato che come prima cosa cambierà il consiglio di amministrazione dell’Acea (acqua, luce e gas) che è quotata in borsa e ha azionisti privati. E l’Ama? Buio pesto. E l’Atac? Circola l’idea che venga salvata dalle Ferrovie dello Stato. Cioè con i soldi di tutti i contribuenti, anche i non romani che non hanno contribuito al suo fallimento. Così risana i conti il partito della spesa, a destra, al centro e a sinistra?

Se si guardano le tabelle nell’ultima relazione della Banca d’Italia si vede che la spesa è inchiodata sopra il 50% del prodotto lordo (decimale più decimale meno), nonostante una riduzione sensibile dell’esborso per interessi e per investimenti. La mano pubblica dunque è grande e pesante, tra le più grandi e pesanti d’Europa. Dopo che si parla di spending review da dieci anni, dopo ben quattro commissari e una pila di proposte sulla carta, non è stato ancora possibile ridurre in modo significativo la spesa corrente né migliorarne l’efficienza.

Non solo: dal prossimo anno finisce il patto di stabilità interno che in questi 17 anni ha cercato di tenere sotto controllo le spese degli enti locali, anche se a scapito per lo più non delle spese correnti, ma di quelle per investimenti, come spiega chiaramente la Corte dei Conti. Adesso il vincolo a mantenere un bilancio in equilibrio sarà limitato alla competenza, il che consentirebbe di sbloccare le spese per investimenti. Vedremo se sarà così oppure se prevarrà il solito andazzo, cioè l’uso della spesa corrente come salvadanaio clientelare. Certo è che di tutto questo nessuno ha parlato durante la campagna elettorale. Chi per ignoranza, chi per distrazione, chi perché si frega le mani pensando di poter attingere a un tesoretto essenziale per acquisire consenso.

Salendo a livello nazionale, ebbene troviamo uno scenario molto simile. Matteo Renzi ha ottenuto dall’Unione europea tempo fino a ottobre e un margine di flessibilità che gli consente di poter manovrare almeno una decina di miliardi. Facendo l’elenco di tutte le promesse, si vede che sono tutti stra-impegnati, tra riduzione delle imposte ai ceti medi, alle imprese, sul lavoro (il cuneo fiscale che continua a salire e sul quale ha insistito anche il governatore della Banca d’Italia), le spese (sacrosante) per la scuola, quelle per i beni culturali, e via via elencando. Siccome non ci sono pranzi gratis, l’idea è di finanziare tutto questo in deficit. È vero, il governo parla di recupero dell’evasione fiscale (un refrain ormai stantio) e di spending review (abbiamo già visto com’è andata in tutti questi anni). Ma appare evidente a tutti che l’unica vera leva sarà il deficit spending.

Tutto ciò può gettare fumo negli occhi in vista del referendum costituzionale. Ma subito dopo arriverà la resa dei conti. Arriverà se vince il sì: Renzi avrà la forza e il consenso per andare avanti dritto per la propria strada fino alle elezioni, ma dovrà immediatamente superare la verifica dell’Ue che a quel punto non consentirà più esami di riparazione. Se poi vincerà il no, si aprirà una crisi politica molto seria con il rischio che venga di nuovo messa in discussione la stabilità del Paese.

Il partito della spesa, dunque, ancora una volta si appresta a portare a casa una vittoria di Pirro, fatta per illudere gli elettori nell’immediato e per torchiare i contribuenti subito dopo. La convinzione generale è che dire la verità sarà onesto e persino rivoluzionario, ma non fa vincere le elezioni. E se fosse vero il contrario? Se portasse alle urne chi, stanco di bugie, ha perso la fiducia nella politica? Se facesse emergere nuovi leader capaci di rompere davvero con il passato? Sarà ingenuo ottimismo, ma dopo averle provate tutte, non resta che dire le cose come stanno.