Le notizie che si affollano sempre più sulla necessità di far fronte alle inevitabili conseguenze che un’eventuale uscita del Regno Unito potrebbe avere sull’Unione europea e che Il Messaggero ha esemplarmente illustrato l’altro giorno ci rimandano a un contesto non solo economico, ma anche internazionale, che un tempo era profondamente diverso da quello odierno perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona. Eco di tutto ciò la si è avuta anche nell’inusitata durezza che la relazione del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha reso manifesta, con una sostanziale rivendicazione della specificità dell’autonomia del sistema bancario italiano, con accenni spesso non dissimili, non ci si stupisca, da alcuni dei più moderati sostenitori della Brexit.



A causa di questo addensarsi della minaccia della Brexit, in questa convulsa settimana tra il maggio e il giugno del 2016, tra la relazione del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e la bella parata del 2 giugno che, nonostante tutti gli uccelli del malaugurio, celebra la grandezza dell’Italia repubblicana, mi sono tornate alla mente le giornate del novembre del 1975. Quando a Rambouillet, sotto l’attenta cura di quel grande uomo politico che fu ed è Valery Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G-6, ossia la riunione di capi di stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia.



Erano anni difficili: anni seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del petrolio di ben quattro volte in sei mesi e, soprattutto, con l’avvento di quello che allora si chiamava stagflazione, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi. Quel grand’uomo che era allora in Presidente della Francia, Giscard d’Estaingn, propose una riunione delle sei grandi potenze mondiali, d’intesa con Helmut Schmidt, il più grande Cancelliere tedesco dopo la Seconda guerra mondiale. La preoccupazione era immensa. I “trent’ anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovesse terminare. E questo colse tutti di sorpresa.



È pur vero che i ministri delle finanze di Francia, Gran Bretagna, Germania Ovest, Giappone e Stati Uniti si riunivano da tempo nella sala della Library della Casa Bianca per discutere il da farsi. A queste riunioni, solo occasionalmente, il nostro ministro delle Finanze veniva invitato. E questo suscitava non poche irritazioni in Italia e, stupefacente a dirsi, anche negli Usa. Infatti, furono proprio gli Usa a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. È un episodio che occorre ricordare perché solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli Esteri Mariano Rumor consentirono all’Italia di partecipare a quel summit con un’abile mossa diplomatica: non sollecitarono l’invito all’Eliseo, ossia alla Francia, ma diedero via libera al segretario generale della Farnesina, che allora era Raimondo Manzini, affinché agisse sulla base dei contatti personali con i francesi, gli inglesi, i tedeschi occidentali e Washington, e tessesse una tela così da raggiungere l’obiettivo della convocazione.

Quel vertice fu decisivo per il nostro Paese, perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo o, quanto meno, si credeva che quei destini fossero decisi o influenzati dai capi di governo. Mi colpisce ricordare che da quella riunione scaturirono degli obiettivi profondamene diversi da quelli di oggi, obiettivi fondati su un impegno di cooperazione tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi. Oggi tutto è cambiato.

Innanzitutto, come si è verificato dell’ultimo G-7 recentemente svoltosi in Giappone, il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare. In questo senso Shinzo Abe, Premier del Giappone, ha propugnato una politica di deficit spending, rifiutando di aumentare le tasse nel suo Paese, per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante da un trentennio alla non crescita. E poi è cambiato anche il contesto europeo: l’equilibrio di potenza nel Vecchio continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo, attraverso le regole dei trattati europei a tutte le altre nazioni, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa così da realizzare i magnifici surplus di esportazione.

Quarantasei anni dopo Rambouillet, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa, ma hanno tuttavia un disegno imperiale mondiale: l’accordo transpacifico che hanno già realizzato (ma che il Congresso non ha votato) e l’accordo transatlantico con l’Europa, che francesi e tedeschi osteggiano ma che ora l’Italia, soprattutto grazie al nuovo ministro degli Affari economici, Carlo Calenda, caldeggia, con un simbolico ritorno a Rambouillet. Ora rendiamo agli Usa ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni orsono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale. Ed è proprio questa perseveranza transatlantica la migliore risposta all’eventuale vittoria della Brexit.

Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori. Speriamo che la nomina di Calenda convinca gli stolidi indecisi o gli ignari avversari del Ttip. Comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale. Si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami molto più grande di quello del 2008. La causa di ciò è nella tendenza alla deflazione europea che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco. E dall’altro lato evidenzia l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi.

L’eccesso di finanza perversa (derivati, collateralizzazione del debito, ecc.) non si sconfigge con l’eccesso di emissione di moneta come fa la Bce. Mario Draghi è prigioniero della sua formazione neoclassica. La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che egli sollecita le riforme strutturali dei governi, ma qui sta l’inganno: le riforme che sollecita favoriscono la crisi. Alte tasse, riduzione dei debiti tout-court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione. Se non si comprende questo la decisione annunciata dalla Bce di acquistare i corporate bond delle grandi imprese che rischiano di vedere aumentare il loro debito e di veder fallire le loro spericolate manovre finanziarie è un suicidio. Se tali politiche verranno attuate altro non faranno che aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta.

Taluni uomini della cuspide finanziaria internazionale dispiegata già si muovono sulla difensiva: quel grand’uomo, non solo di finanza ma anche di intelletto, che è George Soros, ha liquidato tutti i suoi valori mobiliari e ha comprato lingotti d’oro, e molti esponenti della cuspide della ricchezza mondiale svendono a qualsivoglia prezzo asset mobiliari, o per tenersi liquidi in monete che non siano l’euro, oppure per investire in assets dell’economia reale. Non mancano invece coloro che perdono la testa, e sono sopraffatti dal terrore di un mondo fondato sui tassi di interessi negativi: mi hanno molto colpito i due suicidi degli amministratori delegati della Zürich Versicherung svizzera, ossia di una delle imprese un tempo più solide e stabili al mondo, i quali vedevano davanti a sé invece un disastro certo e interminabile.

Insomma, forse è meglio pensare seriamente a tornare a Rambuoillet, gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali. È ora di tornare all’età della ragione. E questo è la migliore risposta all’eventualità della Brexit.