“Tanto a Bruxelles quanto ai mercati preoccupa di più l’esito delle elezioni comunali che non un ipotetico rallentamento del Pil”. Lo spiega Francesco Daveri, professore di Scenari economici all’Università Cattolica di Piacenza, dopo che la nota mensile dell’Istat ha rilevato che “l’indicatore composito dell’economia italiana ha segnato un’ulteriore discesa, suggerendo il rallentamento nel ritmo di crescita dell’attività economica nel breve termine”. Nel Def il governo ha previsto che il Pil cresca dell’1,2% entro fine anno, ma dopo i dati al di sotto delle attese del primo trimestre si era resa necessaria un’accelerata nei mesi successivi. Secondo il professor Daveri però più che l’indicatore Istat dal punto di vista economico contano i risultati del voto nelle grandi città, in quanto “emerge una netta opposizione al sentiero delle riforme che il governo sta cercando di realizzare. L’Ue lega la concessione della flessibilità rispetto al Fiscal compact all’attuazione delle riforme”.
Professore, l’indicatore Istat in discesa implica che il Pil italiano non registrerà il +1,2% entro fine anno?
La prima questione è in che senso i cosiddetti indicatori e anticipatori dell’attività economica siano dei buoni previsori sull’andamento dell’economia. La relazione tra previsori e risultati reali non è sempre molto pulita ed evidente. Per esempio, da un po’ di tempo gli indicatori anticipatori segnalano che l’economia americana dovrebbe essere sul punto di entrare in recessione, eppure nella realtà continua ad andare bene. Anche per l’Italia la relazione dei previsori con vendite, fatturato e Pil è come minimo un po’ erratica.
In che senso?
Non si può correlare un miglioramento poniamo del 2% di uno di questi indicatori con un aumento dell’1% del Pil. In alcuni trimestri c’è stata effettivamente una relazione e in altri no. Alla fine del 2013, per esempio, questi anticipatori segnalavano che ci sarebbe stata una ripresa che poi invece non si è vista nel corso del 2014. Il fatto che adesso questi indicatori ci segnalino un peggioramento dell’attività economica significa che c’è un rallentamento per quanto riguarda ordini, vendite e mercato del lavoro. Non implica però che questi dati si traducano in un peggiore andamento del Pil.
Quindi la nostra economia sta crescendo abbastanza?
Effettivamente perché si raggiungano i risultati previsti nel Def non basta che il Pil si mantenga sui livelli del primo trimestre, ma deve accelerare. Se non si riesce a raddoppiare la crescita registrata fino a questo momento, entro fine anno non si riuscirà a raggiungere il +1,2% previsto dal governo nel Def.
Quali possono essere le conseguenze per la finanza pubblica?
Le conseguenze per la finanza pubblica ci sarebbero, ma si limiterebbero a qualche decimale. Se anziché dell’1,2% il Pil cresce dello 0,7%, il rapporto deficit/Pil tenderà a essere peggiore di circa lo 0,25%. Si tratterebbe quindi di scostamenti decimali rispetto agli obiettivi. Tanto a Bruxelles quanto ai mercati preoccupa di più l’esito delle elezioni di questi giorni, in quanto emerge una netta opposizione al sentiero delle riforme che il governo nel bene e nel male sta provando ad attuare. L’Europa lega infatti all’attuazione delle riforme la concessione della flessibilità.
Il governo ha ipotizzato un ulteriore taglio delle tasse e la flessibilità pensionistica. È compatibile con l’attuale quadro economico?
Queste misure sono la conseguenza di un’ulteriore flessibilità nei conti pubblici. Se questa flessibilità viene meno, la riduzione delle entrate e gli aumenti di spese implicati dal taglio delle tasse sarebbero in contrasto con il miglioramento dei conti pubblici. Una parte del taglio delle tasse è stato però già contabilizzato: la riduzione dell’Ires a partire dal 2017 non richiede infatti ulteriori manovre per trovare attuazione. Al contrario eventuali misure in tema di pensioni avrebbero bisogno di nuove coperture.
Le privatizzazioni bastano a risolvere il problema di deficit e debito?
Le privatizzazioni procedono comunque in modo piuttosto lento. Da queste operazioni ci si aspettava una frazione di Pil dello 0,5-0,7%, mentre finora il contributo è stato inferiore. Se anche fosse stato pari alle previsioni, le privatizzazioni avrebbero comunque garantito un contributo marginale alla riduzione di un rapporto debito/Pil superiore al 130%.
(Pietro Vernizzi)