Mentre Facebook continua la sua stratosferica ascesa in Borsa, raggiungendo la delirante capitalizzazione di mercato di 340 miliardi di dollari, qualche nuvola nera comincia ad addensarsi all’orizzonte per la creatura di Mark Zuckerberg e gli altri principali social network. Stando a uno studio dell’agenzia di marketing intelligence Across the board, basato su dati della Using SimilarWeb relativi ad app di Android, la gente sta infatti cominciando a spendere meno tempo su queste piattaforme. I Paesi presi in esame sono Usa, Regno Unito, Germania, Spagna, Australia, India, Sudafrica e Brasile e vedono comparati i dati del primo trimestre 2015 con quelli di quest’anno: bene, in quasi tutte queste nazioni il tempo speso sui quattro principali social media – Facebook, Snapchat, Instagram e Twitter – è sceso, portando con sé la consapevolezza che gli utenti di Android stanno tagliandone l’utilizzo. 



Stando allo studio, solo in pochi casi i tempi aumentano, come ad esempio in Spagna per Facebook e altrettanto limitati sono gli esempi di cali minimi, come l’uso di Snapchat in Brasile, sceso da 11,23 minuti a 11,10 minuti: nella maggior parte dei casi, il calo è più sostanziale, come ad esempio il tempo trascorso su Twitter in Francia, passato da una media per il primo trimestre 2015 di 19,80 minuti agli attuali 13,12, un calo del 34%. Ma a conoscere la maggior diminuzione media su base annua è stato Instagram con un -23,7%, seguito da Twitter con -23,4%, poi Snapchat con -15,7% e infine Facebook con un calo dell’8%. 



Prendendo il mercato più appetito per i social, quello Usa, vediamo che Instagram è calata del 36,2%, Twitter del 27,9%, Snapchat del 19,2% e Facebook del 6,7%. E se proprio negli Usa, Facebook vanta l’utilizzo medio più lungo con una media di 45 minuti e 29 secondi, è l’India a classificarsi ultima con soli 22 minuti e 59 secondi di media. I social media hanno raggiunto il loro picco di espansione? Comincia il declino, il quale per giganti come Facebook, il cui titolo ha segnato un +14% in Borsa da inizio anno, si potrebbe sostanziare in cali nelle revenues retail e compressione dei margini? 



Per una volta dell’andamento dei mercati e dei titoli non mi interessa, è altro che mi fa riflettere pensando ai numeri che ho sopra-elencato. Stando all’ultimo studio del Pwe Research, infatti, si scopre che il 62% degli adulti statunitensi si informano proprio attraverso i social media, un netto aumento dal 49% del 2012. Di questo 62%, il 18% dei rispondenti ha risposto che cerca notizie di attualità abbastanza spesso, il 26% qualche volta e il 18% sempre. E questo, scusate, vista la quantità di bufale che circolano sul web, può diventare un problema. Ma qual è l’alternativa in America? Come è messa l’informazione diciamo istituzionale e autorevole? Tutta in mano a 6 gruppi editoriali, dei mega-conglomerati che controllano tv, tv via cavo, giornali, case editrici e canali tematici. Tutto, insomma, in mano a 6 corporations. 

Lo conferma l’ultima ricerca della Nielsen dal titolo Total Audience Report, la quale ha anche stimato i tempi che gli americani spendono per informarsi o distrarsi con mezzi di comunicazione. Vediamo: 4 ore e 32 minuti al giorno guardando tv in diretta, 30 minuti di tv non in diretta, 2 ore e 44 minuti ascoltando la radio, 1 ora e 33 utilizzando uno smartphone e 1 ora e 6 minuti utilizzando internet al computer. 

Mettendo insieme i numeri, 10 ore su 24 al giorno sono legati ai mezzi di comunicazione, principalmente la tv, visto che tra diretta e time-shifted siamo a più di 5 ore al giorno. E chi gestisce tutto questo negli Usa? La Comcast che controlla NBC, Telemundo, Universal Pictures, Focus Features, USA Network, Bravo, CNBC, The Weather Channel, MSNBC, Syfy, NBCSN, Golf Channel, Esquire Network, E!, Cloo, Chiller, Universal HD, Comcast SportsNet, Universal Parks & Resorts e Universal Studio Home Video. E poi la The Walt Disney Company, proprietaria di ABC Television Network, ESPN, The Disney Channel, A&E, Lifetime, Marvel Entertainment, Lucasfilm, Walt Disney Pictures, Pixar Animation Studios, Disney Mobile, Disney Consumer Products, Interactive Media, Disney Theme Parks, Disney Records, Hollywood Records, Miramax Films e Touchstone Pictures. 

Ed ecco la corazzata News Corporation che può contare su Fox Broadcasting Company, Fox News Channel, Fox Business Network, Fox Sports 1, Fox Sports 2, National Geographic, Nat Geo Wild, FX, FXX, FX Movie Channel, Fox Sports Networks, The Wall Street Journal, The New York Post, Barron’s, SmartMoney, HarperCollins, 20th Century Fox, Fox Searchlight Pictures, Blue Sky Studios, Beliefnet e Zondervan.C’è poi la Time Warnercon CNN, The CW, HBO, Cinemax, Cartoon Network, HLN, NBA TV, TBS, TNT, TruTV, Turner Classic Movies,Warner Bros, Castle Rock, DC Comics, Warner Bros. Interactive Entertainment, New Line Cinema, Sports Illustrated, Fortune, Marie Claire e People Magazine. Al quinto posto arriva Viacom, la quale controlla MTV, Nickelodeon, VH1, BET, Comedy Central, Paramount Pictures, Paramount Home Entertainment, Country Music Television (CMT) Spike TV, The Movie Channel e TV Land. E infine CBS Corporation che vanta CBS Television Network, The CW (in partnership con Time Warner), CBS Sports Network, Showtime, TVGN, CBS Radio, CBS Television Studios, Simon & Schuster, Infinity Broadcasting e Westwood One Radio Network. 

Il problema è che al netto dell’utilizzo ridotto dei social media e del fatto che però la gran parte degli americani utilizzi proprio quei siti per informarsi su cosa accade, ecco che questi sei giganti stanno crescendo anche in ambito on-line. I primi 10 editori – i quali insieme possono contare su circa 60 siti – hanno pesato per il 47% del traffico on-line totale lo scorso anno, mentre gli altri 140 gruppi editoriali garantivano l’altra metà. Il più grande editore on-line per le news negli Usa è MSN, proprietario di MSN.com, con un combinato di oltre 27 miliardi di pagine visualizzate attraverso mobile e desktop, seguita da Disney Media Networks, proprietaria di ESPN e ABC News, con 25,9 miliardi. 

Ma il risiko continua, gigante che mangia gigante anche nel mondo dei motori di ricerca. Lunedì Verizon Communications ha infatti comunicato di avere in cantiere una seconda ipotesi nei confronti del core business di internet di Yahoo con un’offerta di circa 3 miliardi di dollari, stando quanto riportato da una fonte vicina al dossier. La telco statunitense, vista come la principale aspirante all’acquisizione di Yahoo, ha quindi rispettato la scadenza per la seconda tornata di offerte: c’è interesse, ma si gioca al gatto col topo. In base alle previsioni, Sul tema, i portavoce delle due parti hanno entrambi scelto la via del no comment, tuttavia, la tlc ha specificato nel quadro della transazione l’assenza di interesse per alcune attività del gruppo guidato da Marissa Mayer, tra cui i brevetti e le proprietà immobiliari. 

All’inizio dell’anno, la società californiana aveva annunciato la valutazione dell’opzione di cessione di attività non strategiche, come quelle sopracitate, che potrebbero fruttare oltre un miliardo di dollari. Il mese scorso il Wall Street Journal aveva reso noto che Verizon e gli altri candidati avrebbero impegnato circa 2-3 miliardi di dollari nel secondo turno, un range inferiore rispetto al prezzo che Yahoo pensava di strappare in aprile, quando le fonti avevano parlato di una forbice compresa tra 4 e 8 miliardi di dollari. Dopo la presentazione degli asset in vendita da parte dell’amministratore delegato Marissa Mayer presso la sede di Sunnyvale pare che alcuni players avessero perso l’entusiasmo iniziale. Infatti, alcuni tra gli intervenuti hanno riferito che dalla presentazione è emersa la reale entità del declino del business della pubblicità online di Yahoo, la cui capitalizzazione di mercato di 35 miliardi di dollari è peraltro costituita per lo più dalle quote in Alibaba e Yahoo Japan. 

Verizon, che lo scorso anno ha assorbito Aol per 4,4 miliardi di dollari, appare la società con le idee più chiare per dare una vera svolta a Yahoo. Il gigante delle telecomunicazioni potrebbe combinare le proprietà web di Sunnyvale, che attraggono complessivamente più di un miliardo di utenti al mese, con il proprio business in crescita degli annunci online, motivo per il quale si trova nella condizione di offrire più di altri. 

E in Europa? È di martedì la notizia che i francesi di Vivendi lavorano al lancio di un «Netflix pan-europeo che copra la Francia e la Germania, ma anche l’Italia e la Spagna grazie all’accordo con Mediaset». Il lancio, rivela Le Figaro, non dovrebbe partire dalla Francia, ma dalla Germania, per sfuggire alle strette regole di Parigi sull’eccezione culturale, ovvero sullo spazio da riservare a prodotti nazionali. La nuova piattaforma, spiega il quotidiano francese, dovrebbe riunirne tre già esistenti: la tedesca Watchever, acquisita da Vivendi negli anni scorsi, la francese CanalPlay e l’italiana Infinity, per un totale complessivo di oltre 1 milione e 400 abbonati. Il lancio è previsto per il quarto trimestre 2016 e punta a una rapida espansione sfruttando i prodotti dei cataloghi di Vivendi e Mediaset già esistenti. In seguito, le due aziende sarebbero pronte ad alimentarla con la produzione di una decina di serie originali all’anno, per tre o quattro anni, che potranno essere ammortizzate grazie all’ampia base di abbonati. 

Soggetti sempre più grandi e onnivori che concentrano contenuti e servizi, qui come negli Usa. Siamo sicuri che la libertà passi da un televisore che grazie al satellite ci regala 900 canali diversi ma gestiti tutti da 6-7 gruppi a livello mondiale? È questo il pluralismo? Sembrano questioni ideologiche, ma non lo sono, perché il modo con cui la gente si informa ci dice molto del livello di preparazione che i cittadini hanno per rapportarsi con la realtà che li circonda. Non stupisca quindi che la bufala della ripresa economica Usa sia durata per quasi 4 anni, propagandata com’era con il megafono di 6 corporations che da sole rappresentano il 99% dell’offerta. Ricordatevi che sono i media che veicolano il consenso, non la politica. E non si tratta della fedeltà parossistica di Emilio Fede e del Tg4 che fu nei confronti del Cavaliere, qui parliamo di aziende in grado di comprarsi interi Stati. Oltre che il consenso e il controllo. Il tutto, senza che noi ce ne accorgiamo, intenti come siamo a postare selfie su Facebook o Instagram.