L’infinita crociera del Britannia, inizio e metafora delle privatizzazioni – alias quasi sempre della svendita – delle aziende pubbliche italiane sta finendo il cherosene. Da quando, il 2 giugno del ’92, l’allora direttore generale del tesoro Mario Draghi (oggi presidente della Bce), a bordo dello yacht reale Britannia, discusse con un ristretto club di banchieri d’affari internazionali i piani di privatizzazione dell’allora enorme sistema delle nostre aziende statali le casse del Tesoro hanno incamerato qualcosa come 120 miliardi di euro di proventi da queste vendite-svendite. E il debito pubblico, che 24 anni fa era pari al 105% del Pil, oggi è salito al 132%. Tante aziende che assicuravano dividendi e occupazione, in molti casi brillantissime, sono state cedute senza che con questo si intaccasse il drammatico problema che zavorra la nostra economia.
Raccontata in termini diversi dall’informazione “benpensante” – che all’epoca marciava compatta a favore dell’adesione senza “se” e senza “ma” del nostro Paese alla “fase uno” dell’unificazione monetaria europea – la straordinaria campagna di vendite, superiore per introiti anche a quella britannica, nacque dall’accordo Andreatta-van Miert, successivo di un anno circa alla crociera del Britannia.
Accadde che nel ’93 l’allora commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all’Italia la concessione di fondi pubblici all’Efim, il più piccolo e malconcio dei tre gruppi pubblici che controllavano il grosso del sistema delle imprese pubbliche. Per poter evitare l’insolvenza dell’Efim, l’Italia fu costretta a impegnarsi a stabilizzare i debiti di Iri, Enel ed Eni a un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996: per riuscirci era giocoforza vendere.
Ma ormai il meglio, e il grosso, è stato fatto. E gli ultimi fuochi annunciati due anni fa dal governo Renzi sono, per forza di cose, fuochi fatui. I 12 miliardi di vendite annue vagheggiate da Padoan sono stati ridimensionati a 8; e anche questi appaiono una chimera.
In questi giorni sta andando in vendita l’Enav, l’Ente nazionale assistenza al volo, che resterà a controllo pubblico ma sarà sostanziosamente aperto ai privati pur essendo per definizione un’azienda super-strategica. E poi fette e fettine da macellai di mano abilissima per ridurre ancora le quote detenute dallo Stato in Poste, e forse anche in Eni ed Enel… L’anno venturo dovrebbero finire in rampa di lancio le Ferrovie dello Stato, che nel frattempo hanno appena avanzato un’offerta per comprare dal governo greco le ferrovie TrainOSE.
E poi? Ma come, e poi? Poi c’è il famoso demanio pubblico! Che secondo l’attuale programmazione economica dovrebbero fruttare 400 milioni per il 2016 e 500 milioni per il 2017. Anche qui, briciole rispetto al debito pubblico: e comunque, avercele! In effetti, l’esito delle offerte, in un mercato immobiliare fiacco e povero di domanda, è sistematicamente inferiore alle attese.
La Corte dei conti, nel rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica, ricorda che il governo prevede privatizzazioni per 1,5 punti di Pil tra il 2015 e il 2018, stimando anche grazie a questo un rapporto debito/Pil ridotto al 123,7% nel 2018: e, quand’anche entrasse in cassa quel magro 1,5% da privatizzazione, gli altri otto punti di recupero del Pil dove potremo mai andarli a pescare?