«Dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea i flussi internazionali si sono mossi improvvisamente, e quindi Deutsche Bank e altre banche straniere sono entrate subito nel mirino. Le voci che si rincorrono sui problemi delle banche italiane fanno comodo a molti perché consentono di prestare minore attenzione ai guai di quelle tedesche». Lo rileva Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università degli Studi di Torino.
Professore, che cosa ne pensa dell’ipotesi di un intervento pubblico per risolvere le sofferenze delle banche italiane?
La prima domanda che ci si pone è dove possa prendere i soldi il governo italiano, visto che siamo sempre lì a dire che il nostro deficit tende a essere troppo alto.
Quindi è un problema insolubile?
Non so se sia insolubile, ma con i dati attuali è difficile risolverlo.
Quanto rischiamo per la situazione delle banche italiane?
In primo luogo tutte le risposte che si possono dare valgono per il momento preciso in cui sono formulate, in quanto la situazione dei flussi finanziari e monetari è sempre in divenire. Al momento attuale comunque le banche italiane non rischiano molto, anzi non rischiano quasi nulla come sistema. Per ora la situazione è assolutamente gestibile, non ci sono carenze gravi che non siano già venute fuori. Ci sono situazioni locali di una certa importanza che devono essere risolte, ma il sistema come tale continua a mantenere la sua sostanziale solidità.
A fine mese dovrebbero arrivare gli esiti degli stress test…
Li aspettiamo tutti con molta attenzione, e qualcuno anche con qualcosa di più che attenzione.
In che senso?
Nel senso che a livello europeo ci sono molte banche non italiane che potrebbero avere situazioni di debolezza strutturale delle quali normalmente non si parla.
A quali situazioni si riferisce?
Il nostro punto di debolezza sono i prestiti che non sono pagati alla scadenza. In altri Paesi il punto di debolezza riguarda invece l’esposizione delle banche a investimenti complessi, come i derivati, che in queste settimane anche grazie a Brexit hanno subito delle oscillazioni negative mettendo in luce una generale ritirata degli operatori da questi titoli. Chi oggi ha in mano questi titoli si trova con dei valori un po’ inferiori a quelli di qualche settimana fa, e quindi la sua situazione di fronte a uno stress test può essersi modificata sensibilmente in peggio.
È quanto sta avvenendo anche in Italia?
No, in Italia tutto non succede, perché noi abbiamo una situazione di debiti consolidati, ma non siamo molto esposti sul mercato dei derivati: per noi quindi vale la situazione precedente a Brexit.
L’Ue si sta mostrando più conciliante perché ha capito che i problemi non sono solo delle banche italiane, ma anche di Deutsche Bank?
Assolutamente sì. Deutsche Bank è la banca più grande del sistema, ha delle situazioni di debolezza diverse dalle nostre. Dopo l’uscita della Gran Bretagna i flussi internazionali si sono mossi improvvisamente, e quindi Deustche Bank e altre banche straniere sono entrate subito nel mirino.
Se il vero problema sono le grandi banche centroeuropee, perché i riflettori sembrano puntati sulle banche italiane?
Si è creato uno di quei movimenti tali per cui è difficile dire se siano pilotati o meno. A cominciare è stato il network Bloomberg, che all’indomani della Brexit ha detto che gli italiani avevano chiesto un contributo di 150 miliardi di euro per salvare le banche, cosa che era completamente errata. A quel punto le autorità italiane hanno effettivamente reso noto qual è l’ordine di grandezza delle sofferenze. La notizia è stata subito molto distorta e ha avuto molto seguito, anche perché faceva comodo.
Quindi le banche italiane fanno comodo a chi vuole dimenticarsi dei problemi di quelle tedesche?
Sì, l’attenzione che è stata dedicata alle difficoltà delle banche italiane ha fatto sì che altre banche in difficoltà ricevessero minore attenzione. Non ho nessun elemento per dire che ci sia stato un rapporto di causa ed effetto, e la mia esperienza dei mercati finanziari è che una congiura chiara e netta c’è pochissime volte. Mentre molto più spesso ci sono delle voci che si autoalimentano perché a qualcuno fa comodo crederci.
(Pietro Vernizzi)