Banca Intesa San Paolo batte Mediobanca 48,8% contro 37,7%. Sono le percentuali di adesione alle offerte d’acquisto della Rcs presentate dai due pretendenti rivali, Urbano Cairo da una parte, appoggiato da Banca Intesa, vincitore; e Andrea Bonomi, dall’altra, appoggiato da Mediobanca, con il seguito più automatico che convinto di Diego Della Valle, UnipolSai e del gruppo Pirelli.



Si dirà: che odioso errore da cronisti finanziari deficienti quello di ridurre un confronto sul futuro di una grande azienda culturale a una singolar tenzone tra due banche! Errore, al contrario, pensare che questa interpretazione sia riduttiva: anche lo scontro tra le due banche che hanno appoggiato, rispettivamente, Urbano Cairo e la cordata Bonomi nella gara all’acquisizione del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera è stato uno scontro di natura culturale. Tra due modi di vedere il potere finanziario. Quello di Mediobanca, salottiero post-litteram; e quello di Intesa, non certo immune da pecche (anche la bancone di Bazoli è stata socio dormiente di Rcs quando gestioni dissennate ne dilapidavano il patrimonio), ma capace, se non altro, di capire il vento nuovo e cambiare strada in tempo, puntando su personaggi estranei al salottino…



Dunque vincono Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa, ma anche il suo alter-ego per i grandi business aziendali Gaetano Miccichè. E vince soprattutto Urbano Cairo. Dei perdenti si parli alla fine, intanto si accendano i riflettori sul nuovo condottiero. Difficile trovare nel suo condursi dei difetti. È stato abile e furbo. Avrebbe pagato assai meno al mercato – tutto è Cairo fuorché un benefattore del mercato borsistico! – se non fosse stato costretto a cospicui rilanci del manifestarsi della cordata Bonomi. Ora avrà di che riempire fino all’orlo la sua giornata da “workaholic” inguaribile: dalla mattina alla notte sul pezzo, decidendo personalmente anche la grafica della carta da lettere (difficile essere manager, per chi lavora con lui), entrando in ogni merito, persino il più infintesimale e vendendo, vendendo, vendendo: vendendo sempre.



Cairo è l’allievo venditore che ha superato il suo maestro Berlusconi, di cui fu assistente e poi capo della pubblicità, lasciandolo poi soltanto perché incompatibile – tanto era bravo – con l’highlander Dell’Utri e poi perché attratto dal richiamo dell’autonomia. Infatti, quando Cairo mollò la Mondadori Pubblicità – dove aveva fatto faville – e si mise in proprio rilevando proprio dalla Rizzoli (per lucida scelta di Claudio Calabi, allora ad) due prodotti – prima Io Donna e poi Sette – che sbancarono sul mercato della pubblicità.

Successivamente – è storia! – Cairo rilevò la Giorgio Mondadori Editore mezza decotta e la rilanciò con grande successo, pur senza particolari voli creativi, e valorizzò alcune vecchie glorie del giornalismo rottamate dai grandi gruppi dimostrando al mercato che, messe nel loro habitat, erano ancora capacissime di realizzare prodotti di cassetta, vere galline dalle uova d’oro. Infine, si dedicò alla raccolta pubblicitaria per La7 di Telecom, lavorando bene per l’emittente quanto anche e soprattutto per sé, fino a offrirsi come compratore dell’emittente e a vincere praticamente senza rivali una gara fatta in casa, riuscendo – e qui sì, che si gridò al miracolo – a risanarla praticamente in un solo esercizio dal precedente “buco” di 100 milioni senza toccare un solo posto di lavoro.

Ma chi è, allora, Cairo: un mago? Macché. È un venditore straordinario e non fa altro che lavorare. E continuerà così. Ora, con in mano un colosso come la Rcs, con dentro Corriere e Gazzetta, vivrà un cambio di scala: ma è pronto ed è maturo abbastanza per farlo al meglio. Cosa dovrà dimostrare ancora, al mercato e al Paese? Non l’indipendenza: quella, rispettando scrupolosamente l’anima editoriale dialettica e quasi antagonista de La7, lasciando spazio libero a Floris, a Santoro, soprattutto a quel vero assillo del premier Matteo Renzi che si chiama Maurizio Crozza, l’ha già dimostrata ampiamente. No: deve dimostrare di avere anche visione, lungimiranza. Deve dimostrare come saprà trattare il digitale, che finora, nel suo business, ha semplicemente ignorato… non c’è un solo sito web che si ricordi, nel perimetro attuale del suo gruppo.

E un’altra cosa deve ancora dimostrare da zero: quant’è capace di differenziarsi dal suo modello Berlusconi. Quando dieci anni fa – nessuno è perfetto – ha deciso di iniziare a buttare anche lui qualche milione nel cassonetto dedicandosi al calcio e comprando il Torino, tutti dissero: “Ecco Berluschino: anche Cairo si fa la tv e il pallone”. Era una semplificazione. Il Toro per Cairo era la squadra del cuore di famiglia. Comprarlo – pardon: salvarlo – fu per il nuovo editore del Corriere un omaggio affettivo alla memoria del papà, tifoso granata sfegatato. E comunque, un hobby non si nega neanche agli addict del lavoro com’è lui.

No: il pericolo è che Cairo voglia fare il presidente del consiglio, prima o poi. Si sa come sono gli imprenditori “self-made”: si credono capaci di tutto e immortali. Ecco: è bene dirgli fin d’ora che l’Italia ha già dato, demiurghi d’impresa ne ha già digeriti e… come dire, espulsi. Che per favore lui non ci provi nemmeno. E poi: di tv ne ha una sola, e piccolina. Il Maestro ne aveva tre, e strapotenti.

Per il resto, Cairo farà, e farà bene: del resto erano… circa trent’anni che il Corriere non aveva un editore degno di questo nome. L’ultimo ad averci provato, sia pure a modo suo, è stato – in realtà fino al ‘98 – Cesare Romiti: poi più nessuno, salvo il perenne patronage di Giovanni Bazoli, che permise la miglior sopravvivenza possibile al più longevo, e probabilmente al più bravo dei direttori, Ferruccio De Bortoli, consentendogli perfino di definire icasticamente Matteo Renzi “un maleducato di successo”. Ma insomma un editore vero come Cairo il Corrierone lo ritrova solo oggi.

Auguri a tutti, se c’è uno che può fare il miracolo di risanare quel ministero della buroeditoria che è la Rcs si chiama Urbano Cairo. E incredibilmente il mercato c’ha creduto, trovando in giro un sacco di azionisti che anziché cedere alla logica del “pochi, maledetti e subito”, portando a casa il cash offerto da Bonomi, ha preferito scommettere sull’ex assistente del Cavaliere, fattosi padrone di se stesso, rimanendo suoi soci, convinti che possa essere meglio scegliere la gallina domani che l’uovo oggi.

E veniamo al fronte dei perdenti, iniziando con l’assolvere il titolare della cordata sconfitta, cioè il bravissimo – ma proprio bravo – Andrea Bonomi. Assolverlo perché non è del mestiere, e visto che il mercato ha deciso di puntare sulla crescita futura della Rcs, era ovvio che scegliesse Cairo. Bravo comunque, Bonomi – e benemerito proprio per il mercato, vitalizzato dalla sua sfida. Però – attenzione! – Bonomi è bravo a fare l’investitore finanziario: individuare valore nascosto dove nessun’altro lo vede, trovare dei bravi manager capaci di estrarlo, e rivendere, dopo cinque o sei anni. L’imprenditore ha un altro profilo: s’innamora della sua creatura (come fa Cairo!), non la vende neanche per tutto l’oro del mondo, piuttosto ci muore dentro, come Acab.

Ma allora perché Bonomi s’è lanciato in questa sfida? Lui è uno che ha vinto tutto, e non ha mai sbagliato niente: dovunque sia entrato è uscito vincente, beneficando le aziende in cui è passato, dal miracolo Ducati alla stessa Bpm, e presto all’Aston Martin e alla Valtur. E allora? Allora, s’è lasciato irretire dal salotto buono, lo stesso che trent’anni fa buttò a mare senza riguardo e senza dignità un “parvenu” come suo padre Carlo, che era stato ammesso al soglio solo per i tanti soldi che la sua mamma (e nonna di Andrea) Anna Bolchini Bonomi aveva saputo fare e lasciare in eredità a quel figlio colto, sensibile e perbene ma del tutto privo del bernoccolo degli affari. Quello stesso salotto, o ciò che ne resta, trent’anni dopo, ha avuto la faccia tosta di chiamare Bonomi per contrastare (tentare di…) Cairo: e lui gli ha concesso l’aiuto richiesto, probabilmente sentendo e pensando che così sarebbe stato legittimato da quello stesso mondo che aveva respinto il padre. Avrebbe, insomma, vendicato la famiglia dall’onta dell’abbandono.

Nessuno è perfetto. Ma sicuramente Andrea Bonomi avrà oggi imparato la lezione: l’anacronismo dei pezzi di ancien-regime che Mediobanca pretende di incarnare trova ogni giorno nuove falle, nuove defaillance. Le aziende in cui quella vecchia banchetta – lasciata irrimediabilmente orfana dal suo mitico fondatore Enrico Cuccia nel 2000 – aveva ancora partecipazioni strategiche otto anni fa hanno fatto tutte una fine brutta o, nella migliore delle ipotesi, una fine buona perché esterna al perimetro del salotto, come Telecom, regalata al vero padrone francese di Mediobanca, Vincent Bollorè. Le altre: Italmobiliare, ha ceduto la sua perla (Italcementi) ai tedeschi; Fonsai è stata affondata dalla gestione pilotata da Mediobanca, quella dei Ligresti, e salvata con una manovra ai confini della realtà grazie all’astuto ed efficace intervento di Unipol che ha saputo giustamente usare Mediobanca come un tassì; e la Pirelli è stata pilotata da Tronchetti, e solo da lui, in mani salde capaci di garantirle un futuro globale, ma se avesse aspettato Mediobanca non avrebbe ottenuto mai nulla di significativo; e infine la Rcs, appunto.

Come dire che il fiasco in questo scontro finanziario Mediobanca non può che aggiungerlo a un palmares negativo – chicca tra le chicche, aver aperto bottega a Londra con lungimirante precognizione del Brexit! – che avrebbe condannato a rottamazione certa qualunque altro gruppo dirigente, ma non in Italia…

E ora? Ora, come ha elegantemente chiosato Bonomi, nel suo messaggio di “sconfitto” dettato a risultati noti, “è tempo di pensare al bene dell’azienda che sono certo, con il supporto di tutti i suoi azionisti, saprà raggiungere buoni risultati. Infine, come imprenditore e investitore istituzionale che crede nell’Italia e qui ha sempre investito, voglio confermare che Investindustrial continuerà a mettere risorse al servizio dello sviluppo del Paese e delle sue aziende”. E qui c’è da credergli: perché Bonomi ci sa fare e da domani, certamente, emancipato dalla “scimmia sulla spalla” che forse aveva ed era una certa soggezione psicologica verso il vecchio salotto buono, riconcentrerà sul suo business le capacità di scelta e ideazione strategica che già in tanti altri casi ha saputo dimostrare.