L’Imperatore Akihito ha annunciato, tramite gli Uffici imperiali, che intende dimettersi e lasciare, perché troppo affaticato, l’esercizio del potere. Un vero e proprio scandalo per la tradizione scintoista secondo la quale l’Imperatore è il Dio in terra e dovrebbe solo mostrarsi e mai parlare agli umani. Molte cose sono cambiate dalla fine della Seconda guerra mondiale e la Casa Regnante ha contribuito immensamente a un processo di secolarizzazione che ha di fatto ridotto lo scintoismo a una morale militare, che impedisce ancora di far la pace con i popoli sottomessi brutalmente durante la Seconda guerra mondiale perché, se così si facesse, le anime dei combattenti perderebbero la loro purezza e precipiterebbero in un inferno da cui mai sarebbero liberate. Per questo, salvo un coraggioso premier socialista che durò al governo l’espace d’un matin (tre mesi), tutti gli altri capi di governo, liberali o democratici che fossero e siano, si son sempre rifiutati di porgere le scuse dinanzi ai monumenti funerari dei nemici caduti.
Ma la questione ora coinvolge l’essenza stessa del Giappone, così come si è ricostruito nel secondo dopoguerra. MacArthur voleva spingere l’opera di de-militarizzazione sino all’estremo, processando anche Hirohito, ma fu disarmato da Truman che lo richiamò in patria e affidò la ricostruzione piuttosto che ai militari agli antropologi. Ruth Benedict scrisse quel capolavoro dimenticato, ma indispensabile, per capire il Giappone, che è il saggio “Il Crisantemo e la Spada”, dove apriva l’immenso vaso di Pandora di un sistema culturale chiuso e autoriproducentesi.
Un tempo, quando ero borsista della Tokyo Foundation, che mi ospitò per un mese nella Tokyo degli anni Ottanta, Takeo Dato, Rettore dell’Università Sofia, l’università dei padri Gesuiti, il più acuto studioso della cultura giapponese antropologicamente intesa, mi disse, passeggiando e conversando in francese: “Sono il popolo più mostruoso e terribile del mondo, spiritualmente intesi. Per i riti nuziali usano sì i riti cattolici perché li affascina il canto e l’incenso e noi ci prestiamo per poche lire a soddisfare le loro pulsioni (inutile dire che la polemica era nei confronti dei poveri padri salesiani che di queste funzioni matrimoniali avevano fatto un’industria fiorente), quando muoiono hanno paura e allora ricorrono ai riti buddisti sperando che la misericordia li avvolga e li salvi dal dolore del fuoco. Per ultimo rimane lo scintoismo, religione civile, religione di guerrieri sempre pronti a risfoderare le armi e a suicidarsi per aver perso l’onore”.
Oggi il Giappone è davanti a delle scelte che sono di nuovo insieme metafisiche e tutte pragmatiche. Il riarmo aggressivo della Cina costituisce per il Primo Ministro Abe, nazionalista e scintoista convinto, una sfida a cui egli vuole rispondere seguendo finalmente l’indicazione che viene dal nuovo disegno imperiale nordamericano, che Obama ha ben reso manifesto nella sua recente intervista a The Atlantic. Questa strategia si fonda sulla necessità di creare delle subpotenze regionali vassallatiche rispetto agli Usa che al posto di questi ultimi affrontino volta a volta gli stati nemici emergenti nella regione. Il Giappone è lo stato vassallatico e la Cina lo stato aggressivamente emergente.
Per far questo il Giappone deve modificare la sua carta costituzionale che non prevede l’esercizio della guerra, tantomeno di una preventivamente aggressiva. Abe ha recentemente vinto le elezioni anche su questo punto. La difficoltà parlamentare, da un lato, e manifestazioni di massa dall’altro (tanto spontanee quanto incentivate dalla Russia e dalla Cina medesima), rendono problematico il cambiamento istituzionale. Ma ridiventare potenza militare richiede il fuoriuscire dalla stagnazione economica in cui il Giappone è immerso dal 1985, quando gli Usa con gli stessi accordi del Plaza imposero la rivalutazione dello yen e la fine del miracolo giapponese: iniziava la sindrome giapponese, che anticipava la stagnazione secolare mondiale e la distruttrice deflazione europea di marca teutonica.
Abe ha vinto le elezioni opponendosi frontalmente al mainstream teutonico che sta dilagando nel mondo. Di qui l’appoggio convinto che gli Usa danno alla sua politica. Essa è incentrata su pochi ma decisivi punti. Il primo è una politica fiscale espansiva che dovrebbe stimolare la crescita con l’aumento della spesa pubblica, creando nuove strutture e opere pubbliche e ricostruendo il potenziale nucleare del Giappone, ripartendo dal sito di Fukushima, pur con tutte le polemiche che questo progetto sta suscitando. L’espansione del welfare alle famiglie che dovrebbe incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sconfiggendo antiche tradizioni, è un altro punto fondamentale.
Politica che non manca di contraddizioni come quella di operare nel contempo un aumento della tassa sui consumi, un pegno pagato ai fautori dell’austerità che continuano ad avere una forte influenza nell’opinione pubblica e nello stesso governo, nonostante gli osservatori più avveduti ricordino loro che la spirale deflattiva ebbe un nuovo sussulto nel 1997, quando il governo di Hashimoto ebbe l’infausta idea di aumentare le tasse sul valore aggiunto.
Un altro punto della politica economica di Abe è iniziare una politica monetaria espansiva, che dovrebbe fondarsi sulla messa in discussione di uno dei dogmi che ci ha portato alla catastrofe mondiale negli ultimi vent’anni, ossia il dogma della separazione tra ministero del Tesoro e Banca centrale. Naturalmente anche in Giappone, alla fine degli anni Novanta del Novecento, si emanò una legge all’uopo (in Italia fu la nefasta idea stupidamente glorificata, propugnata da Nino Andreatta), sancendo l’indipendenza della Banca centrale che non aveva più l’obbligo di comprare titoli di stato assumendo invece l’obiettivo di controllare l’inflazione e la stabilità del sistema finanziario. Abe ha con decisione destituito il governatore della Banca Centrale Shirakawa con Kuroda che è stato per anni un critico feroce della precedente politica economica essendo stato presidente della Banca Asiatica dello Sviluppo e deciso sostenitore delle teorie di Ben Bernanke sull’inflation targeting.
L’atteggiamento del Giappone si fa dunque interessante perché il gigante asiatico si è scosso dal suo sonno certo per motivi geostrategici e bellicisti, ma anche grazie a una profonda rivoluzione intellettuale che ha investito le sue classi dirigenti. Basta pensare al fatto che il consigliere economico principale di Shinzo Abe e dell’importante ministro delle Finanze Taro Aso è uno degli interpreti della nuova rivoluzione keynesiana, ossia Koichi Hamada, emerito professore di Yale e grande critico delle politiche dell’austerità deflattiva.
Naturalmente nulla di questa rivoluzione in corso giunge in Italia e in Europa. E nulla trapela di suoi buoni frutti: la disoccupazione (udite, udite!) è scesa al 4,1%, la spesa delle famiglie è aumentata del 5,2% e la Borsa di Tokyo continua a guadagnare. Ne consegue una svalutazione dello yen che ha dato nuovo impulso alle esportazioni giapponesi, sconvolgendo finalmente il mondo immobile e stagnazionistico dei cambi fissi. Insomma, un’esperienza cui l’Europa dovrebbe guardare con interesse sfuggendo così alla pietrificazione generata dalla medusa tedesca.