La tragedia ferroviaria avvenuta la settimana scorsa in Puglia dovrebbe avere, quanto meno, l’effetto di porre il problema delle infrastrutture del Paese al primo posto all’ordine del giorno dei lavori di Governo e Parlamento. Il dibattito non è mancato nel periodo in cui la spesa pubblica in conto capitale è crollata dal 3,5% del Pil negli anni Ottanta, al 2,5% alla fine degli anni Novanta, e a meno dell’1% negli ultimi anni. E i tentativi di “project financing”, con l’apporto di investitori privati, hanno riguardato in modo puntiforme unicamente alcuni settori (quali i beni culturali). Il dibattito è stato, tuttavia, unicamente tra esperti della materia e pare non abbia sfiorato Governo e Parlamento.



La letteratura in materia è abbondante: tutti gli scritti propongono un aumento dell’intervento pubblico, una semplificazione delle procedure, una regolazione più efficace e più efficiente. L’Italia fa parte del Long Term Investment Club che organizza ogni anno a Roma una conferenza mondiale sul tema. Se si guarda solo alle iniziative “interne”, fondazioni come Fastigi sono molto attive nell’animare la discussione. Non sembra, però, che ci siano stati effetti concreti sui processi decisionali della politica.



Negli anni Cinquanta sono state realizzate numerose grandi opere (tecnicamente all’avanguardia) perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio consenso (Governo, Parlamento, imprese e cittadini). Allo stesso modo per l’opinione pubblica la costruzione di una nuova opera era, per definizione, un’opportunità. Oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, allora c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese.

A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, il fabbisogno principale è stato per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture esistente, una tematica molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso. Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative. Ciò ha cambiato il già complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di riferimento.



Circa venticinque anni fa, l’allora direttore del Congressional Budget Office degli Stati Uniti, Alice Rivkin, aveva sottolineato che in un’economia avanzata e matura le spese per infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche, quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle esistenti. Ciò comporta non pochi problemi sia sotto il problema dell’analisi economica (li ho esaminati in altra sede) che sotto quello politico-amministrativo.

A mio avviso è sul secondo aspetto che poco ci si sofferma e che è al cuore del declino del parco infrastrutturale italiano. Nonché di tragedie come quella ferroviaria della settimana scorsa. I ritardi nel miglioramento delle infrastrutture (anche quando i finanziamenti sono disponibili, come nel caso del tratto ferroviario Andria-Corato) sono in gran misura dovuti a una normativa complessa (difficile comprendere perché per le ferrovie in concessione non siano obbligatori sistemi di controllo tecnologicamente moderni in uso sul resto della rete nazionale), ma soprattutto aggrovigliata, parcellizzata e dove lo Stato non esercita quella funzione di supremazia (nel risolvere dispute locali) che ha sempre avuto sin dai tempi dello Statuto Albertino e che ha mantenuto anche nell’infelice riforma del titolo V della Costituzione effettuata nel 2001.

Viene affermato che la riforma della Costituzione proposta dal Governo Renzi modificando il Titolo V della Costituzione ribadirebbe la supremazia dello Stato. In effetti, il principio di supremazia non è stato affievolito nel riforma del 2001. Semplicemente non è stato applicato principalmente per evitare di mettersi in dibattiti (spesso a carattere locale) che fanno perdere consensi quale che sia la parte per cui ci si schiera.

Ad esempio, pochi hanno notato che una delle determinante (forse la principale) dei ritardi nell’impiego dei finanziamenti europei nelle ferrovie pugliesi sarebbe stato quello che nel sito web di Ferrotramviaria S.p.A viene chiamato “Il Grande Progetto” che , se realizzato, “avrebbe dovuto permettere la prima interconnessione delle reti ferroviarie che inciderebbe in modo strategico sul sistema della mobilità regionale. Oggetto dell’intervento: il raddoppio per 13 km del binario sulla tratta Corato-Barletta; l’interramento della ferrovia nell’abitato di Andria per 2,9 km, di cui una zona di circa 460 metri in galleria, con tre nuove fermate, la realizzazione di parcheggi di scambio intermodali dislocati in prossimità di 11 stazioni/fermate ferroviarie che offriranno circa 2000 posti auto, l’eliminazione di 13 passaggi a livello e l’interconnessione con la Rete ferroviaria italiana nelle stazioni di Bari centrale e Barletta. Sette i comuni interessati direttamente dall’intervento: Barletta, Andria, Corato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto e Bari”.

Pare fantascienza: si utilizza ancora il telefono come strumento di controllo, ma si discute di un “Grande Progetto” di cui manca un’adeguata analisi dei costi e dei benefici finanziari, economici e sociali e forse anche un capitolato tecnico dettagliato con relativi computi metrici. Il dibattito infuocato a livello locale su tale progetto avrebbe ritardato i minimi ammodernamenti ai controlli. Difficile comprendere perché lo Stato non abbia esercitato il proprio diritto-dovere di “supremazia” per risolvere la disputa e dare la priorità all’ammodernamento dei controlli. Non è un problema di risorse, ma di cultura politica.