Secondo il manuale del piccolo giornalista, nel caso degli stress-test sulle banche effettuati e annunciati ieri dall’Eba, manca proprio la notizia. Manca, cioè, il “what”(cosa), perché si sapeva benissimo già da settimane che il Monte dei Paschi di Siena sarebbe stato bocciato e le altre quattro banche italiane esaminate (Unicredit, Intesa, Ubi e Banco Popolare no); manca anche il “who”, perché chi ci sia dietro quest’Eba – European banking autorithy, che scrive le pagelle – non è chiaro: pensate che l’italiano Andrea Enria, a suo tempo “pescato” come capo dell’Eba dalla Banca d’Italia, non era mai arrivato nemmeno a sfiorare la nomina nel “direttorio” che guida l’istituto italiano; e manca il “when”, perché gli stress immaginati nel 2018 – caduta del Pil italiano di quasi il 6% nei prossimi tre anni, un deprezzamento generale del valore delle case e un importante peggioramento del rating sui titoli di Stato – sono in parte (i primi due) largamente accaduti già e in parte (il terzo) dipendono dalla Bce, cioè alla fine dallo stesso clan che si nasconde dietro l’Eba. Si aggiunga, con tutto il rispetto, che l’Eba fece superare gli stress test a Dexia e Bankia del 2011, per poi vederle ricorrere al salvataggio pubblico solo pochi mesi dopo…
Ha ragione da vendere Donato Masciandaro, professore di Economia all’Università Bocconi di Milano, cattedra di Economia della Regolamentazione Finanziaria, il quale – vox clamantis in deserto – afferma che gli stress test “così come sono, se vanno bene e fotografano una situazione di stabilità dell’industria non servono a niente e se vanno male accentuano la volatilità dei titoli. Che sono oltremodo penalizzati: nessuno sano di mente o in buonafede affermerebbe che i corsi di Borsa riflettano i reali valori delle banche che rappresentano”.
L’unica notizia di ieri è stata la svolta del Monte dei Paschi di Siena: cioè il varo di una maxi-svendita delle sofferenze bancarie e di un aumento di capitale da 5 miliardi che, se a buon fine, dovrebbe raddrizzarne i conti. In questo caso – e senza con ciò negare che la notizia sia buona! – lo Stato italiano e l’Unione europea vincono il campionato mondiale dell’ipocrisia, perché dietro l’apparente intervento salvifico del “mercato” per risolvere il problema delle sofferenze e ricapitalizzare l’istituto si erge pur sempre la garanzia pubblica, nell’unica formula consentita dall’Europa, formula indiretta farraginosa e complessa, ma pur sempre garanzia e pur sempre pubblica: quella dei cosiddetti Gacs – cioè le garanzie del Tesoro sulla parte reputata più affidabile delle cartolarizzazione delle sofferenze bancarie da vendere – e quella del fondo Atlante, sulla parte un po’ meno affidabile, essendo Atlante finanziato in parte prevalente dai privati, ma ancora, solo grazie alla compresenza e all’iniziativa della Cassa depositi e prestiti, che è pubblica.
Fotografata quindi, nel suo insieme, la giornata di ieri per quello che sembra realmente significare, proviamo a isolare i veri, piccoli fatti nuovi che ha portato alla luce.
Gli stress test. La buona sorpresa, a voler essere generosi, è che anche il Banco Popolare abbia superato gli stress test; i “gufi” non ne erano così sicuri, e i più neri tra essi avanzavano sospetti perfino su Unicredit, che non a caso sta cercando di vendere gioielli di famiglia per rimpannucciarsi. Quindi, evviva, ricordando comunque Dexia, e facendo gli scongiuri. Quanto al sistema bancario italiano nel suo insieme, e sempre secondo l’Eba, il tasso dei crediti deteriorati sul totale degli attivi bancari è del 5,7% a livello europeo e 16,6% a livello italiano; l’indice di redditività delle aziende bancarie è 5,8% a livello europeo e 3,3% a livello italiano; il coefficiente di patrimonializzazione è 13,4% a livello europeo e 11,4% in Italia.
Tradotto: le banche italiane hanno il triplo dei “buffi” in cassaforte, la metà degli utili e il 20% in meno dei patrimoni della media europea. E ricordiamocelo: non per colpa loro, ma per colpa di Berlusconi e Monti che non seppero o non vollero usare i soldi pubblici per ricapitalizzarle quando tutti gli altri Stati, a cominciare dalla Germania, lo fecero. Guai ai vinti.
Siena. Il caso Montepaschi è straordinario. Una banca crivellata di perdite a causa di una lunga stagione di gestione demenziale benedetta dal Pds e poi Pd e in particolare da Massimo D’Alema: dove quel “benedetta” non è un modo per dire – come tanti pensano – che la banca ricambiasse gli elogi a quattrini, perché nessuna procura l’ha per ora dimostrato; ma vuol dire pur sempre che la notoria e conclamata vicinanza di quella banca all’area Pd etichetta come insipienti i capi del Pd che l’elogiavano e la portavano a modello di buon governo creditizio. Oggi l’istituto è ben gestito dal vertice “commissariale” che da quasi quattro anni ne ha preso le redini, l’amministratore delegato Fabrizio Viola. Quindi, rende. Ma è zavorrato da questa montagna di 27 miliardi di euro di sofferenze, cioè crediti concessi a clienti immeritevoli che non li hanno restituiti. Sono in parte coperti da garanzie e quindi hanno un certo valore. Quanto valore, si vedrà, andando sul mercato per realizzare tutto il possibile: si spera qualcosa in più del 33% del valore nominale (insomma, 10 miliardi su 27).
In che modo si realizzeranno questi soldi? Attraverso una maxi-cartolarizzazione. Che cos’è? È l’emissione di titoli derivati che rappresentano quelle sofferenze e la loro possibilità di essere ritrasformate in denaro. Questi titoli vengono comprati da un gruppo di investitori che poi cerca di far fare materialmente a qualche altro operatore di “recupero crediti” le attività vere e proprie di trasformazione delle garanzie in denaro. Cioè, per capirci, vendere le case avute in pegno infilandosi in (troppo lunghe) procedure giudiziarie di asta; ma anche litigare con i prestatori delle garanzie, in casi estremi anche a costo di inviare da loro nerboruti giovani con giubbotti di pelle nera, per indurli a pagare quel che possono.
Quel che di buono accade alla banca è che, però, nel frattempo, incassa. Cioè i tempi lunghi e le tante incertezze legate alla materiale trasformazione delle garanzie in soldi non sono più un suo problema, perché lei i soldi (quel 33%) li prende subito. Metà, arriveranno a Siena da chi comprerà materialmente le sofferenze, pagandole più o meno la metà del 33% (guarda caso, il 17% scarso, ancor meno di quanto pagato per le sofferenze delle quattro banche fallite, Banca Etruria e le altre); e metà entrerà come aumento di capitale da 5 miliardi. Attenzione: siccome l’aumento di capitale si raccoglie sul mercato e ci vuol tempo, c’è un gruppo di investitori che faranno al Monte un prestito-ponte di pari importo, in attesa dell’aumento.
Chi si incaricherà di raccogliere sui mercati finanziari questi 5 miliardi di aumento di capitale? Un mega-consorzio composto, oltre che dai global coordinator Jp Morgan e Mediobanca, anche da Goldman Sachs, Santander, Citi, Credit Suisse, Deutsche Bank e Bofa Merrill Lynch. Come si vede, la “crema” (chiamiamola così) del sistema bancario occidentale, che si presta all’operazione perché dividendo il rischio lo minimizza e lucra laute commissioni. Ma… se le operazioni di vera e propria trasformazione delle sofferenze in denaro (le visite dei giovanotti col giubbotto nero, insomma) non rendessero quanto si spera, e quindi le obbligazioni che “anticipano” quei valori finissero con l’essere scoperte e crollassero sui mercati dove verranno trattate, cosa accadrebbe?
Interverrebbe lo Stato. Su una parte dei titoli rappresentativi delle sofferenze e sottoscritti dagli investitori finali, scatterebbe appunto la garanzia pubblica (la cosiddetta Gacs: garanzia cartolarizzazione sofferenze) che integrerebbe il valore delle obbligazioni deprezzate a tutela degli investitori. Coperta da un fondo istituto dal ministero dell’Economia (pochi soldi, per ora, appena 100 milioni: se le cose andassero male, ci sarebbe da rifinanziarlo).
La parte più rognosa delle obbligazioni “figlie” della cartolarizzazione delle sofferenze, le cosiddette junior, se la accolla il fondo Atlante. E qui bisogna dire che, “obtorto collo”, facendo buon viso a cattivo gioco, le banche italiane “sane” il loro dovere lo stanno facendo a tutela di quelle decotte, e cioè degli interessi comuni del sistema, ma pur sempre per iniziativa politica (tutto è stato deciso al Tesoro) e con la partecipazione finanziaria (sia pure al 10%) dello Stato attraverso la Cassa depositi e prestiti.
Per il Montepaschi, la situazione formalizzata ieri è certamente un passo avanti. Frutto di ipocrisie e abborracciamenti, ma utile. Il sistema bancario resta malconcio, a dir poco. L’Eba resta un mistero doloroso.
Il caso Passera. E poi c’è il caso-Passera. Il manager, che ha un curriculum straordinario e a cui va tra l’altro la gran parte del merito di aver costruito la banca italiana più grande e solida del sistema, cioè Intesa Sanpaolo (premiatissima dagli stress-test, per quel che la cosa vale) è sceso in campo in zona Cesarini affiancato dal colosso bancario svizzero Ubs per sostituirsi ad Atlante e al consorzio Jp-Morgan Mediobanca nelle operazioni di smaltimento delle sofferenze e di ricapitalizzazione del Montepaschi. Questo avveniva giovedì sera. Il presidente del Monte, l’economista prodiano Massimo Tononi, dapprima l’ha convocato d’urgenza al consiglio d’amministrazione già previsto per ieri, e poi l’ha “sconvocato”. Per cui la sua proposta è rimasta confinata alla lettera di presentazione in cui l’aveva sintetizzata. Come dire che non se lo sono filati proprio.
Sostanzialmente – pare – perché non c’era più il tempo (secondo la Bce) per valutare alternative all’altro piano. Che però si prende molto tempo per agire. E poi, Passera conosce bene ed è stimato dal presidente della Bce Mario Draghi. Non si capisce né perché lui si sia mosso così in extremis, né perché il Monte non l’abbia potuto neanche ricevere. Il suo piano l’avrebbe rimesso in gioco come banchiere e top-manager, i mestieri che ha saputo fare meglio, sia a Intesa che – prima – alle Poste, inventando tra l’altro il Bancoposta (odiato dalle altre banche). Una seconda falsa partenza, come quella tentata in politica con la candidatura a sindaco di Milano. Alle Olimpiadi, i tiratori sparano due volte per precisare la mira sui bersagli. Auguri a Passera per il prossimo, terzo tentativo.