Gli stress test della Bce non sfuggono al solito giochetto del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. E lo dimostra la reazione dei principali quotidiani. “Banche sane, male solo Mps”, titola a caratteri cubitali (segno di non celato entusiasmo) Il Corriere della Sera. I due più importanti quotidiani economici del mondo, il Wall Street Journal e il Financial Times sono ben più prudenti e scrivono che “la maggior parte delle banche europee è sopravvissuta” al peggior scenario di crisi simulato dalla Eba, l’autorità bancaria europea. E c’è chi sottolinea che questo scenario è in ogni caso più blando rispetto a quello del 2014 e molto più leggero del metodo usato dalla Federal Reserve per le banche americane. Questione di metodo, ma anche di sostanza.



Venerdì è stato pubblicato uno studio condotto da Viral Acharya per la New York University applicando i valori di mercato e non quelli di libro, al capitale degli istituti di credito. In questo caso il risultato è molto, ma molto peggiore ed entrano in crisi giganti come Deutsche Bank, l’inglese Hsbc e l’italiana Unicredit, mentre sono al limite anche Bnp Paribas e Société Générale, cioè le principali banche francesi. Catastrofismo da professori? Criteri discutibili e volatili come le borse? Vero, ma sia la prudente Eba, sia la Fed, sia la New York University concordano su due questioni di fondo: 1) le banche hanno bisogno di aumentare il loro capitale, e di molte centinaia di miliardi se non proprio di oltre mille come sostiene anche il Financial stability board; 2) debbono ripensare il loro modello di business. Entrambi sono obiettivi difficili da raggiungere in una fase di rallentamento della cresciuta negli Stati Uniti (persino) e nell’Unione europea che sta per fermarsi (gli ultimi dati mostrano una crescita del Pil di appena lo 0,3%). Congiuntura e struttura, dunque, rendono più difficile la trasformazione del sistema creditizio.



Ma vediamo i dati dell’Eba e in particolare lo stato di salute delle banche italiane. Il Monte dei Paschi è condannato, com’era prevedibile. Nel caso di una nuova crisi, il suo capitale diventerebbe negativo entro il triennio previsto, dunque sarebbe insolvente. I vertici di Mps sottolineano che il test non tiene conto dell’aumento di capitale di 5 miliardi che è stato appena deciso e del fatto che con il fondo Atlante 2 la banca senese verrebbe liberata da 9 miliardi di crediti inesigibili. Vero, ed è vero che proprio la tagliola dello stress test ha consentito di accelerare un salvataggio di mercato da tempo atteso e mai realizzato. Tuttavia non è bello vedere che la terza banca italiana è l’unica a mostrare un segno decisamente negativo in caso di scenario avverso: il Cet1, cioè il tasso di capitalizzazione che comprende azioni, utili non distribuiti e riserve, precipita a -2,44% rispetto alle sue attività ponderate per il rischio.



Ci sono altre importanti banche colpite dallo stress come la britannica Royal Bank of Scotland (nazionalizzata nel 2008 e ancora controllata dal governo e considerata sistemica), l’irlandese Allied Banks (in mano al governo di Dublino dal 2009), la Commerzbank (lo Stato ha la quota di controllo), ma in coda alla lista troviamo la britannica Barclays, la tedesca Deutsche Bank, l’italiana Unicredit (entrambe sistemiche). È vero che hanno superato l’esame, ma solo con una risicatissima sufficienza che non le mette certamente al sicuro. E si tratta di tre colossi che debbono mettere in conto piani di ristrutturazione da lacrime e sangue e trovare molti e molti miliardi di capitale vero, cioè senza ricorrere a strumenti finanziari più o meno immaginifici.

Dunque, mettiamo da parte i facili entusiasmi e analizziamo con realismo una situazione nient’affatto tranquilla per i risparmiatori e per i contribuenti, visto che si fa strada un po’ ovunque la convinzione che solo un massiccio intervento pubblico potrebbe spezzare la spirale negativa. Con uno sguardo retrospettivo si può concludere che siamo a questo punto perché fin dal 2008, quando la crisi finanziaria rivelò chiaramente la debolezza del sistema creditizio, mentre gli Stati Uniti intervennero con una soluzione radicale (soldi pubblici, ristrutturazione, cambio dei vertici e ritorno al mercato con restituzione al Tesoro dei prestiti più gli interessi), nell’Unione europea prevalse un approccio caso per caso, cioè Paese per Paese, indotto da governi fortemente influenzati dagli interessi della potente lobby bancaria: Germania e Francia in testa, però l’Italia non fu da meno (ricordiamo tutti i messaggi tranquillizzanti dell’Assobancaria e del Tesoro sulla solidità delle nostre banche).

Le aspirine nazionali hanno prodotto uno stato di febbre bassa, ma permanente con immediati e spesso inattesi eccessi, una sorta di malaria ha colpito il sistema bancario. L’Eba con i suoi test è come un termometro che registra la temperatura, ma non cambia la cura. Ecco perché è del tutto irresponsabile stappare champagne perché “una sola” banca italiana fallisce (sia pure in modo clamoroso). Delle cinque grandi banche analizzate, Intesa è l’unica con un solido patrimonio di vigilanza. Le altre hanno comunque bisogno di robuste cure ricostituenti. In alcuni casi sono in corso: l’Ubi promette di farcela da sola, il Banco popolare sposa la Bpm che si spera porti una buona dote. In altri come Unicredit siamo agli annunci del nuovo amministratore delegato Jean Pierre Mustier, il quale non potrà sfuggire a un consistente aumento del capitale.

“In Europa c’è ancora molto da fare”, sostiene Guntram Wolff direttore del centro studi Bruegel intervistato dal Corsera. E in Italia c’è da fare ancora di più.