Fin dalla più remota antichità, l’uomo, dotato di memoria e cosciente del flusso del tempo, si è continuamente preoccupato del futuro. Le sue convinzioni e aspettative sono diverse: dalla credenza in un progresso permanente e immanente, al presagio della decadenza o dell’apocalisse, dai mutamenti lineari alle discontinuità. L’idea di un progresso permanente e immanente, che ha sostenuto l’uomo occidentale nella sua storia, si è organizzata in una sorta di evoluzionismo sociale basato su una legge di sviluppo, secondo la quale la conoscenza scientifica e la capacità di agire sulla natura determinano una crescita costante.



Questa concezione poggia sulla convinzione che il passato e il presente siano noti, come pure gli elementi che producono l’evoluzione, e che la causalità sia lineare. Per tutto questo, il futuro sarebbe prevedibile. Ma, l’evoluzione non è soggetta a leggi, né a condizionamenti deterministici. Non è né automatica, né lineare. Non esiste un fattore costante che la condiziona. La realtà sociale è complessa e l’evoluzione viene influenzata da diversi fattori quali: invenzioni tecniche, cultura, genetica, caso, ma anche emozioni, euforia e panico.



Ad esempio, la teoria dei cicli, con la sua concezione del divenire storico, è accattivante poiché si riferisce a un metodo statistico-matematico (e questo ne sancisce la scientificità); inoltre, il divenire, pensato come un continuo ripetersi (basti ricordare i “corsi e ricorsi” di Ibn Khaldun, G.B. Vico e Paul Kennedy), ha conservato sempre un potere di fascinazione. Possiede, infatti, una forte attrazione culturale, data l’illusione di poter prevedere il futuro. Il processo di fascinazione indotto dal verificarsi di un’importante avventura umana – economica, scientifica, geografica, culturale – produce una mutazione delle mentalità e dei costumi che danno avvio a un nuovo tempo della vita che potremmo chiamare anche “ciclo”, o altro. 

Secondo lo studioso economista russo Korndrat’ev, morto nei gulag nel periodo stalinista degli anni Trenta del secolo scorso, i cicli espansivi e negativi hanno una ampiezza di circa venticinque anni. J. Schumpeter ha avanzato una spiegazione della dinamica dei cicli lunghi con il verificarsi delle invenzioni: macchina a vapore e tessitura inizialmente; poi acciaio e ferrovia; a seguire motore a scoppio, elettricità, prodotti chimici e, arrivando ai nostri giorni, aereospazio e nucleare a cavallo dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Infine, in concomitanza alla caduta del muro di Berlino del 1989, l’affermarsi dell’ultima fase espansiva, con le invenzioni della “rete” e delle tecnologie digitali, del telefono cellulare, dell’informatica in genere. Ciclo conclusosi la settimana scorsa, con il responso referendario britannico. 

Stupisce ripercorrere gli eventi dei secoli scorsi: si pensi alla data della Rivoluzione francese, 1789 e alla conclusione del periodo napoleonico, dopo venticinque anni, con la pace di Vienna del 1815, o all’inaugurazione della Torre Eiffel, con la prima esposizione mondiale a Parigi del 1889, la belle Epoque finì venticinque anni dopo con l’attentato di Sarajevo di cui in questi giorni si ricordano i 102 anni di anniversario. Nel secolo scorso nessuno ipotizzava come quell’evento potesse cambiare il mondo: il fervore delle cancellerie europee, frenetico ma sereno, preoccupato ma fiducioso, convinto anche quella volta di evitare il peggio, come la precedente crisi di Tangeri, fu travolto dagli eventi e dalla determinazione austriaca del rispetto delle regole. 

Cento anni dopo l’Europa è nuovamente alla prova. La Commissione europea e i suoi governanti sono fiduciosi di individuare una soluzione alle ripercussioni del risultato referendario inglese, ai movimenti nazionalistici potenzialmente dirompenti e alla stagnazione economica in atto, nonostante la visione negativa e senza alternative, del finanziere G. Soros, commentata dai media in questi giorni.

Già nel settembre del 2013 avevamo ipotizzato su queste pagine, una possibile nuova crisi, ora, con l’uscita della Gran Bretagna dal mercato europeo, viene alla luce la fragilità politica dell’Europa, le problematiche finanziarie della sua divisa e del suo sistema bancario, in particolare quello italiano. Domenica scorsa, sulle pagine del Corriere l’articolo di fondo al fulmicotone dell’economista Francesco Giavazzi, pivot del Governo, ha auspicato un’azione di salvataggio del nostro sistema bancario da 40 miliardi, decretando comunque il de profundis per gli azionisti della terza banca del paese, il Montepaschi di Siena. A seguire, le indiscrezioni apparse sui principali giornali del Paese, di un piano del governo finanziato da nuovo debito pubblico, in corso di negoziazione con la Commissione europea, finalizzato all’ingresso dello Stato nel capitale delle banche italiane in crisi, evitando le forche caudine della legge in vigore del bail-in. 

Se il rigore teutonico prevarrà, come nella crisi di Sarajevo, e verrà negata all’Italia questa azione straordinaria, il destino per le nostre banche è segnato, forse anche dell’Europa e dell’euro. Ne discende, quindi, l’importanza dell’osservazione di Sant’Agostino: “Ci sono tre tempi: il presente delle cose passate, il presente delle cose presenti, e il presente delle cose future”. Seguirà un periodo di turbolenza, si bruceranno miliardi di ricchezza di carta, la rivincita della storia sulle elite plutocratiche; e purtroppo, come ogni crisi, anche le classi non abbienti soffriranno.