Che cosa succede al Monte dei Paschi? Ho provato a cimentarmi con questa domanda e debbo dire onestamente di non averci capito un granché. Sarà colpa del mese di agosto che porta con sé la solita voglia di pensare ad altro, favorita quest’anno dalle Olimpiadi. L’operazione è molto complicata e mira a risolvere il problema dei crediti deteriorati (npl, “non performing loans”) in modo strutturale, attraverso un progetto in tre fasi. Innanzitutto, vi sarà un incremento dei livelli di copertura degli attuali crediti deteriorati della banca, che, secondo le stime fornite, ammontano a fine marzo a 27,7 miliardi di euro al lordo degli accantonamenti già effettuati (10,2 miliardi netti); la copertura con risorse proprie, per un ammontare di circa 3 miliardi complessivi, sarà portata dall’attuale 63,3% al 67%.



Il secondo tassello prevede la cartolarizzazione dell’intero pacchetto di sofferenze, cioè la sua trasformazione in titoli obbligazionari con contestuale trasferimento a un ente di diritto italiano appositamente costituito (una specie di fondo/società), al prezzo di un terzo del loro valore lordo complessivo (9,2 miliardi di euro), cioè a un importo almeno pari al valore netto dopo l’incremento della copertura, senza il quale la cessione sarebbe troppo onerosa per la banca: così si spiega appunto la prima fase del progetto.



Dalla cartolarizzazione nasceranno tre tipi di obbligazioni: una tranche “senior”, cioè la più tradizionale e sicura dove gli obbligazionisti vengono rimborsati per primi in caso di default della banca, che verrà collocata sul mercato avvalendosi della garanzia statale recentemente introdotta nella normativa italiana (la cosiddetta “Gacs”, “garanzia cartolarizzazione sofferenze”); una seconda tranche costituita da “mezzanine”, cioè strumenti a metà strada tra titoli di debito e di capitale, spesso accompagnati dalla possibilità di conversione in azioni, che verrà sottoscritta dall’ormai celebre fondo “Atlante” (1,6 miliardi di euro) e, infine, una tranche “junior”, cioè titoli subordinati, più rischiosi, che in caso di crisi dell’istituto vengono rimborsati soltanto dopo gli obbligazionisti “senior”: si tratta per intenderci di coloro che insieme agli azionisti subiscono innanzitutto le perdite in caso di attivazione del meccanismo di bail-in, che tanto fa discutere nel nostro Paese. Quest’ultima tranche verrà assegnata agli azionisti attuali della banca: in assenza di ulteriori precisazioni – almeno a livello di stampa ufficiale – bisogna intendere tutti gli azionisti, rappresentati, per oltre l’85%, dal mercato, cioè da piccoli, medi e grandi risparmiatori.



Il terzo step del progetto è il tanto discusso aumento di capitale, essenziale dopo la cartolarizzazione che consente, come abbiamo visto, di trasferire i crediti a valori notevolmente inferiori a quelli di carico. L’aumento di capitale, offerto in opzione agli azionisti fino a un masssimo di 5 miliardi di euro, è coordinato da JP Morgan e Mediobanca e vede la partecipazione di un pool di banche di tutto rispetto (Banco Santander, BofA Merrill Lynch, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche bank e Goldman Sachs), unite nell’intento di garantire il buon esito dell’operazione, condizionato naturalmente al successo della cartolarizzazione. 

Funzionerà? Non saprei. Soprattutto, mi domando se non si possano tentare strade più semplici. In una recente intervista apparsa su Milano Finanza, Joshua Anderson, manager di Pimco (prestigiosa casa di investimento diffusa in tutto il mondo), ipotizzando che la situazione non subisca particolari deterioramenti, giudica gestibile nel tempo il problema delle sofferenze bancarie italiane grazie alla crescita degli utili (30 miliardi di euro l’anno a livello di sistema), sostenibile visto che non sono previsti per il nostro Paese significativi scenari di recessione, unitamente al recupero delle garanzie collaterali che coprirebbe più del 50% dei prestiti italiani (sostanzialmente immobili e titoli posti a garanzia di mutui e prestiti). Tuttavia “l’obiettivo politico che vuole rendere il sistema a prova di recessione fin da subito – osserva il manager – implica che in questo momento gli operatori del mercato danno agli utili un’importanza minima, se non nulla” e siccome il mercato è legge -osservo io – non si può far altro che chinar la testa. 

Sull’altro versante, Luigi Zingales, in una recente intervista apparsa su Repubblica, citando l’esempio degli Stati Uniti, sollecita un intervento pubblico di sistema per risolvere il problema alla radice ed evitare “soluzioni di mercato” dal futuro incerto, ricordando inoltre che il rischio di fondi come Atlante – peggio ancora in caso di ingresso di fondi americani o anglosassoni – è quello di procedere con azioni di riscossione senza scrupoli, avendo il principale scopo di remunerare i partecipanti, con possibili ricadute sulle economie territoriali.

A mio personale parere, un faro speciale dovrebbe accendersi anche sugli azionisti del Monte dei Paschi, soprattutto sui piccoli risparmiatori, da un lato chiamati ancora una volta a sostenere la banca con apporto di denaro senza certezza di recupero delle quotazioni del titolo; dall’altro lato potrebbero vedersi assegnare quote di titoli “junior”, cioè della parte più rischiosa delle sofferenze. Non saprei dire se si tratta di una vera alternativa al bail-in.