Chissà se si riuscirà a far capire che la deflazione è un male terribile che rischia di far decadere le nazioni. Mentre si sventolano le bandiere europee ai giochi olimpici con un moto commovente di speranza, la realtà continua a macinare segnali di avvertimento, di prudenza per gli speranzosi esalatori dell’Europa di Maastricht. Son giunti i dati statistici sulla situazione italiana e l’Istat è come sempre impietoso, basta che non li commentino coloro che non ci vedono mai la verità ma continuano a ignorarla. Nel caso dei dati pubblicati il 12 agosto 2016 è inutile e impossibile farsi delle illusioni: sono più negativi che mai…



Nel secondo trimestre del 2016 il Prodotto interno lordo è rimasto invariato, ossia drammaticamente simile ai primi tre mesi dell’anno quando cresceva invece dello 0,3% rispetto ai tre mesi precedenti, mentre aumenta dello 0,7% rispetto al secondo trimestre del 2015, prova preclara che la crescita non si è prodotta. Certo non si scende. Quindi si conferma la tesi della stagnazione piuttosto che della recessione. Una stagnazione che durerà a lungo perché non ci sono segni di ripresa possibile. La domanda interna non cresce. Il secondo trimestre del 2016, infatti, ha avuto una giornata lavorativa in più del trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto al secondo trimestre del 2015. La variazione acquisita del Pil per il 2016, dopo sei mesi, è pari a +0,6%: la domanda interna è drammaticamente ferma se la si considera dal lato dei salari e degli stipendi. Anche i redditi da capitale sono scesi o sono fermi. 



Il Prodotto interno lordo cresce di pochissimo solo nell’agricoltura e nei servizi, mentre l’industria fa segnare dati pericolosamente negativi che spiegano gli arresti e la diminuzione dei redditi da capitale e da stipendi e salari. Dal lato della domanda, quindi, la crescita interna non esiste, anzi, mentre solo di poco si ha un lievissimo aumento di quella a connotazione estera netta. Vi è un lieve contributo negativo della componente nazionale compensato da un apporto positivo della componente estera netta. E questo mentre il Pil aumenta congiunturalmente dello 0,6% nel Regno Unito e dello 0,3% negli Stati Uniti, con una variazione nulla in Francia. 



Ma se osserviamo gli stessi dati di queste nazioni secondo una prospettiva di tendenza riscontiamo invece che il Pil aumenta del 2,2% nel Regno Unito, dell’1,4% in Francia e dell’1,2% negli Stati Uniti. Ma la questione sembra drammatica se guardiamo all’insieme dell’area dell’euro, che vede un aumento del Pil solo dello 0,3% e dell’1,6% rispetto allo stesso trimestre del 2015.

I governi sbagliano le previsioni, ma di questo non dobbiamo preoccuparcene a meno che non si cada in quelle polemiche sterili che hanno ucciso la lotta politica in Italia e nel mondo. Le previsioni erano più ottimistiche, ma non solo dei ministri e dei capi clanici che controllano o posseggono i partiti odierni di governo (e di opposizione). In verità il governo si attendeva un aumento del Pil dello 1,2%, mentre la Banca d’Italia prevede una crescita assai al di sotto dell’1%. Insomma, un’esemplare (dal punto di vista scientifico) situazione di stagnazione da deflazione.

L’unica soluzione per spezzare questo circolo vizioso è l’aumento della domanda interna attraverso una riduzione del gravame fiscale, un abbassamento delle rendite improduttive, un innalzamento dei salari. Ma questo insegnamento tutti fanno finta di non sentirlo. Pensate al contratto dei metalmeccanici, che non si chiude perché Federmeccanica vuole applicare gli aumenti solo ai lavoratori che hanno i salari al di sotto dei minimi contrattuali, ossia che son rimasti al di sotto del tasso di inflazione (oggi!) . Ma se siamo in una situazione deflattiva è evidente che se non si vuole a parole affamare i lavoratori si vuole però distruggere l’industria e affamarli di fatto i lavoratori. E questo perché non si comprende che per aumentare la produttività, prima delle tecnologie e delle tecniche organizzative, bisogna garantire la riproducibilità della forza lavoro. 

Nessuno ascolta più la saggezza dei grandi economisti. La scienza economica si è, sin dal tempo dei classici, ossia di Malthus, accapigliata sul fatto se la causa della crisi fosse da ricercarsi nel sottoconsumo, a causa di bassi salari e di crisi demografica, con conseguente caduta del tasso di profitto e alta disoccupazione (tesi di Malthus, Marx e Heckscher e dell’oggi più noto Alvin Hansen), oppure se essa risiedesse, come riteneva, da buon liberal, Sir Keynes, nella carenza d’investimenti. Oggi possiamo ben dire che questi giganti più o meno possenti, ma tutti giganti rispetto ai nani neoclassici odierni, avevano ragione tutti e che, nel contempo, hanno torto tutti gli altri economisti di serie B, i neoclassici appunto, che ci hanno portato, con le loro politiche economiche, a questo punto.

 

(Vi prego di leggere durante le vacanze:

Alvin H. Hansen, Business Cycles and National Income. London: Allen and Unwin, 1964.

Eli Heckscher, International Trade, and Economic History, Findlay Ronald, Rolf G. H. Henriksson, Håkan Lindgren and Mats Lundahl, eds., The MIT Press, 2007.

John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Terenzio Cozzi, Torino, UTET, 2006,.

Thomas Robert Malthus, Principles of Political Economy, VDM Verlag, 2007. 

Karl Marx, Il Capitale – libro III, a cura di Maria Luisa Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 259-281.

Sarete contenti, capirete di più…)