Alla ricerca del consenso più vasto possibile sul difficile referendum autunnale – per la verità una ricerca affannata – il presidente del consiglio ha promesso agli statali un rinnovo del contratto di lavoro che dopo sette anni dovrebbe mettere loro più soldi in busta paga. Si vedrà, ma l’impegno del “Renzi-datore-di-lavoro” è stato chiaro: “statalistatesereni”. Come potranno gli industriali privati che nei prossimi mesi vedranno scadere i contratti di 5 milioni di lavoratori di vari settori a differenziarsi dalla linea del “loro” premier?
Vediamo innanzitutto quali contratti stanno scadendo. Secondo l’Istat, sono 50 i patti in attesa di rinnovo, per 8,2 milioni. Secondo la Uil, con le prossime scadenze tra pubblico (3 milioni) e privato, saranno 12 milioni i lavoratori in attesa di rinnovo contrattuale. Vediamo quali. Secondo i dati Uil – i più precisi -, interessati ai rinnovi di contratti scaduti nel 2015 ci sono 3,4 milioni i lavoratori dei settori industria, manifatturiero e servizi; 220.000 lavoratori artigiani; 155.910 impiegati in aziende medie e piccole; 52.000 afferenti all’agricoltura; 20.000 ascrivibili al settore cooperativo. I contratti già scaduti nel 2016 si riferiscono a 1,7 milioni di lavoratori, di cui un milione del settore manifatturiero e dei servizi, 116 mila impiegati in piccole e medie aziende e 680 artigiani. Entro fine 2016 scadranno altri 8 contratti per ulteriori 2 milioni di lavoratori, per un totale di 7,6 milioni di addetti del settore privato.
La giungla contrattuale è talmente fitta che lo stesso sindacato ci si orienta a fatica. Tra i contratti scaduti prima del 2015 ci sono quelli del turismo Confindustria; del terziario Confesercenti; dei circa 150.000 lavoratori del settore delle poste, per i quali sono in corso le trattative per il rinnovo, non più inquadrabili nell’ambito pubblico dopo la quotazione in Borsa di Poste Italiane.
Tornando alle premesse, Renzi ha parlato di aumenti economici, ma il gossip indica in appena 300 milioni lo stanziamento per gli statali, e la sua rivale Susanna Camusso, Segretario generale della Cgil, ha detto al riguardo che “non si accontenterà di un caffè”. E gli industriali privati? Sarà la prova del fuoco del nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. La linea della Confederazione è nota: lo strumento del contratto nazionale, ripetono da anni come un mantra gli industriali, va ripensato. Deve diventare una cornice di pochissime regole di metodo dentro le quali poi è il livello aziendale a essere determinante per stabilire i flussi retributivi, sia quelli fissi, sia – soprattutto – quelli variabili perché legati ai risultati. Già, perché è questo il punto chiave della posizione confindustriale: più flessibilità, nelle modalità di espletamento delle attività lavorative; più variabilità del salario rispetto all’andamento aziendale. Se ci sono utili, li si divide più sostanziosamente di oggi; se non ci sono, la paga base resta sempre la stessa, ma è più bassa.
A settembre inizieranno le trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, punto di riferimento per il settore manifatturiero. Il capo storico del settore in casa Uil Rocco Palombella è stato netto: “Il rinnovo contrattuale resta per noi il mezzo per tutelare i più deboli e soprattutto mantenere uniti i lavoratori. Il contratto deve essere rinnovato, ma soprattutto occorre rinnovarlo bene”. Poi ha aggiunto un giudizio soggettivo ma interessante: “Sono convinto che la posizione di Federmeccanica sia sempre più isolata anche dalla stessa Confindustria. Proprio in questi mesi sono stati rinnovati tantissimi contratti nazionali di lavoro nel sistema privato che hanno riconfermato i due livelli di contrattazione con il recupero salariale previsto per tutti i lavoratori, legato all’inflazione, insieme al rafforzamento del sistema collegato del welfare aziendale”.
Si vedrà. Di certo se si valuta la complessa materia dal punto di vista macroeconomico risalta un’evidenza, che cioè solo la difesa del potere d’acquisto dei salari può trasformarsi in consumi e quindi in domanda interna, una delle voci depresse della nostra congiuntura che si riverbera in modo deprimente sul Pil. È chiaro d’altronde che un aumento salariale generale e decorrelato dall’andamento aziendale nuoce alla salute, e alla competitività, delle imprese.
Il punto critico è dunque stabilire le quantità di queste partite di costo. Su che livelli è giusto assestare la parte fissa e “sicura” dei salari? Quanta parte dell’utile aziendale è giusto riservare ai premi di produttività, e dunque alla parte variabile della retribuzione? Quanta parte va lasciata al welfare aziendale, una componente “giovane” dei contratti che però – come ha ben denunciato su queste pagine Emmanuele Massagli – sembra già sul viale del tramonto?
Con i soli slogan non si va lontano. Bisogna snocciolare cifre e stanziare costi. È quanto va deciso nelle trattative: ma non solo a livello aziendale, dove troppo spesso la parte dei lavoratori non ha voce.