Un paio di settimane fa, Massimo D’Alema, in una trasmissione televisiva, rivendicava, tra le riforme che avevano fatto i “rottamati” come lui, anche il vasto programma di privatizzazioni che ha caratterizzato gli anni Novanta. È un ricordo che vorremmo dimenticare, come un brutto incubo. Ma la politica e le sue scelte sono in fondo fatte per dividere. Con quelle privatizzazioni in Italia è rimasto piuttosto poco di strategico in diversi settori industriali, al contrario di altri Paesi dell’Unione europea, ma anche perché quel “vaste programme” di privatizzazioni non portò alcun beneficio reale alle casse dello Stato. Si rivelò alla fine una grande svendita, per un totale di circa 220mila miliardi di lire e chi riuscì a guadagnare veramente furono soprattutto le grandi banche d’affari anglosassoni, che si presero cura di questa operazione in cambio del 5% del totale della vendita. In alcuni casi, ci furono atteggiamenti talmente maldestri della classe politica e dei nuovi “boiardi” di Stato che si presentavano appena dopo la cosiddetta “ventata” di Tangentopoli, che molte realtà italiane volarono via a prezzo di autentica svendita e la Corte dei Conti lo sottolineò nel 2007.
Ora, per fare quadrare sempre i conti, anche in base ai parametri che vengono imposti dall’Unione europea, il governo, attraverso il suo ministero all’Economia, poco prima di conoscere i dati del Pil, bloccato, e dello stock del debito che cresce sempre, in modo quasi ossessivo, aveva pensato di rispettare i numeri mettendo in vendita (si dice sul mercato, oibò) un altro 30% delle nostre Poste e poi di privatizzare l’Enav, cioè la società che si occupa dell’assistenza al traffico aereo, cioè una realtà piuttosto delicata, che difficilmente si privatizza, anche nei Paesi più mercatisti del mondo.
Ma il governo non vuole fare “brutte figure” con la signora Angela Merkel e il “sopravvissuto” Francois Hollande. Quindi, si venda. Solo che i conti non tornano lo stesso. Gira e rigira, malgrado tutte le rassicurazioni e i propositi di ripartenza, si calcola uno sbilancio di circa 5 miliardi di euro. Quindi la strada obbligata è ancora una volta la richiesta flessibilità, oltre al collocamento del 30% delle Poste, alla vendita dell’Enav appunto e a una parte del solito patrimonio immobiliare pubblico, di cui si sente parlare da anni e che ormai ha tutta l’aria di ricordare i “carri armati” che si facevano vedere diverse volte (ma erano sempre gli stessi) a Benito Mussolini per rassicurarlo nello sforzo di “spezzare le reni alla Grecia”.
C’è da considerare che, anche in questa occasione, i venditori italiani sono poco accorti. Fanno previsioni e “Documenti di economia e finanza” piuttosto avventati; registrano dati che qualcuno ha pure il coraggio di definire “discreti”; vedono che il debito continua a salire (77 miliardi di euro in sei mesi) e poi si mettono a vendere in condizione di “bisogno”, fatto che certamente incoraggia e favorisce il compratore. Quanto meno c’è anche un pizzico di superficialità e di dilettantismo, perché nel documento di primavera (quando l’Italia era in cosiddetta “ripartenza”) si diceva: “Il profilo quantitativo degli introiti previsti dalle privatizzazioni risulta molto ambizioso”.
Del resto il programma era stato (non sappiamo se bene o male) tagliato della vendita del 40% delle Ferrovie dello Stato, che è stato rinviato a data da destinarsi. Ma è chiaro che anche un simile collocamento, nella negativa descrizione in cui la stampa estera dipinge oggi l’Italia da un punto di vista economico, sarebbe disastroso e le caratteristiche di svendita si presenterebbero di nuovo, quasi come negli anni Novanta. Alla fine, qualcuno pensa che il programma di privatizzazione serva spesso a pagare le spese correnti dello Stato.
È evidente che in circostanze come questa, il vertice di Ventotene diventa decisivo, sotto molti punti di vista. Non c’è solo la questione del rilancio di un’Europa che sembra diventare sempre di più una realtà marginale, non c’è solo la questione della richiesta di nuova flessibilità, che alla fine pone in condizioni di debolezza nei confronti dei due altri partner. C’è ormai, con chiara evidenza, da chiedere un ripensamento complessivo di politica economica da valutare. In altri casi la situazione complessiva diventerà sempre più complicata per tutta l’Europa.
L’Italia ha di fronte un autunno “caldo o da brividi”, si possono scegliere le metafore che si vogliono, ma se il governo di Matteo Renzi non riuscisse a varare un manovra di qualche respiro e dovesse invece fare di nuovo i conti con l’inflessibilità di Berlino, la situazione politica italiana entrerebbe in fibrillazione e tutta l’Europa non ne avrebbe un giovamento. Lasciamo perdere Hollande, impegnato con il suo primo ministro nella battaglia contro il “burkini”, ma la stessa signora Merkel, che continua a tirare per la gonna Theresa May perché rinvii la Brexit, comincerebbe e trovare difficoltà all’interno della stessa Germania, non solo nell’attuale “baraccone” dei burocrati di Bruxelles, che alla fine ascolta solo Berlino.