Oggi 22 agosto, su invito del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, il Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Angela Merkel, e il Presidente della Repubblica Francese, François Hollande si ritrovano a Ventotene. È un incontro dal carattere altamente simbolico sia perché i tre sono gli attuali leader politici dei tre “grandi” Stati fondatori delle istituzioni (Ceca, Cee, Euratom) che hanno gradualmente portato all’Unione europea, sia perché oggi tra le domande principali che si pone la comunità internazionale c’è se l’Ue potrà andare verso il disegno federalistico tracciato proprio a Ventotene da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni o anche solamente verso la ever closer union auspicata dal Trattato di Lisbona del 2007.



La situazione attuale dell’Ue non è tale da potere fare prefigurare né il federalismo del Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni, né la ever closer union delineata a Lisbona. L’Ue, e in particolare l’unione monetaria, stanno debolmente uscendo da una crisi economica quasi decennale e sembrano assestarsi in una stagnazione di lungo periodo. Stati importanti come la Gran Bretagna stanno uscendo dall’Ue, acquistano vigore le proposte (come quella del Premio Nobel Stiglitz) di dividere l’unione monetaria in due aree (una a euro forte e una a euro debole), non si riesce a mettere insieme una strategia comune nei confronti dell’immigrazione. E via discorrendo.



In un’Europa in non buona salute, lo Stato ospitante è tra quelli che hanno più problemi: come già analizzato su questa testata, gli ultimi dati statistici sembrano indicare che i tremuli barlumi di ripresa del 2015 si siano esauriti nel corso di questa primavera. È probabile che, oltre alle celebrazioni ufficiali e ai discorsi di maniera, l’Italia colga l’occasione per chiedere ancora una volta flessibilità. Neanche il Cancelliere Merkel può concedere tale flessibilità nella gestione dei conti pubblici in quanto è prerogativa degli organi collegiali Ue. L’Italia probabilmente spera che, nell’incontro a tre, abbia l’appoggio della Francia.



Ci sono, però, due aspetti di fondo. Da un lato, un retaggio storico che Parigi e Berlino non dimenticano. In tutta la storia dell’integrazione europea, l’Italia ha temuto di essere tenuta in poco conto in quanto il processo sarebbe stato determinato da una stretta intesa tra Francia e Germania (anche perché lo stesso Manifesto di Ventotene postulava il federalismo europeo come strumento per far terminare una volta per sempre le guerre tra le due sponde del Reno); di conseguenza, Roma ha sempre cercato, con alterne vicende, di contrapporre una stretta intesa con Londra per equilibrare il peso di quella tra i due Stati “renani”. È un retaggio di cui sia Parigi sia Berlino sono consapevoli. Per questo considerano il Presidente del Consiglio che li ospita uno junior partner della triangolare.

Il secondo aspetto è la controprova del primo. La Francia non ha chiesto flessibilità, ma se l’è presa, portando il rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Pil a oltre il 4% quando lo riteneva necessario (per spese di difesa e di sicurezza interne e per non acuire lo scontro con le parti sociali). È stata sottoposta a procedura d’infrazione, ma non se n’è data troppo conto per ragioni sia politiche che economiche.

Sotto il profilo politico sa che l’intesa con Berlino (culminata, in materia monetaria, con l’accordo del Louvre del febbraio 1987) è molto salda. Sotto quello economico, lo “sforamento” in materia di disavanzo di bilancio è bilanciato da un debito pubblico che alla firma del Trattato di Maastricht superava leggermente il 50% del Pil e ora, nonostante le operazioni fatte durante la crisi finanziaria, è attorno al 90%. Sull’Italia invece pesa un debito pubblico che al momento della firma del Trattato di Maastricht sfiorava il 120% del Pil (e con il cosiddetto “emendamento Carli” ci impegnammo a portare al 60%) e ora viaggia verso il 135%.

Nonostante analisi secondo cui, grazie principalmente alla riforma delle pensioni, il debito pubblico italiano sarebbe più “sostenibile” di quelli di numerosi altri Stati dell’Ue, Berlino e anche Parigi hanno difficoltà con l’aritmetica secondo cui l’aumento del deficit italiano non influirebbe sul debito. Nel prossimo numero delYale Journal of International Law c’è un saggio (già in circolazione tra gli “addetti ai lavori”) in cui Anna Gelpern chiede apertamente: “Se non si affronta ora il nodo del debito sovrano, quando lo si fa?”.

Inoltre, sinora l’Italia non ha mai spiegato cosa farà con la flessibilità. La Francia, prendendosela senza chiederla, ha chiaramente indicato che il suo sforzo per la sicurezza comune è tale che togliendo le spese militari dal conteggio, il suo indebitamento netto sarebbe pari all’1,8% del Pil, ossia ben dentro i parametri Ue. A Parigi e a Berlino sanno che l’Italia ha scadenze elettorali imminenti (referendum), che il Governo ha appena subito una sconfitta pesante in numerose città, che la flessibilità potrebbe servire non per contribuire a obiettivi europei comuni, ma per “mance e mancette” prima delle urne. Non è stato affatto apprezzato l’appello della stampa anglosassone “salvate il soldato Renzi” per evitare caos e incertezza in Italia.

Indicativo il saggio Policy Uncertainty and the Economy di Kevin Hassett e Joseph W. Sullivan appena pubblicato dall’American Enterprise Institute. In esso si passa in rassegna la letteratura in materia di politica ed economia dell’incertezza e si conclude che negli Stati Uniti, nel mese precedente le presidenziali, le probabilità di una recessione sono il doppio rispetto a qualsiasi altro mese dell’anno; ma il pronostico raramente si verifica.

Berlino e Parigi hanno metabolizzato il detto romano Morto un Papa se ne fa un altro.