La Bundesbank vede rosa. Gli industriali e le famiglie no. È il bilancio che emerge dagli ultimi dati economici in arrivo dalla locomotiva tedesca, alla vigilia di un autunno delicato per frau Merkel e per l’intera architettura europea. Un puzzle da cui emergerà un possibile (ma non probabile) cambio di rotta della navicella europea per cui si prevedono tempi non facili. In sintesi: 



Ieri l’indice Ifo, relativo alla fiducia delle imprese tedesche ad agosto, è sceso al livello più basso dal dicembre 2014 a 106,2 punti, sotto le stime degli economisti che prospettano un miglioramento a 108,5 da 108,3 di luglio. Il dato conferma le previsioni grigie emerse dal Pmi composito (l’indice delle intenzioni d’acquisto delle imprese) uscite a inizio settimana. “La fiducia delle imprese in Germania è chiaramente peggiorata”, ha commentato il numero uno dell’Ifo, Clemens Fuest. Tra l’altro anche l’indicatore relativo alle condizioni attuali è sceso a 112,8 punti e quello sulle aspettative a 100,1. Il volume dei nuovi ordini è diminuito; il clima di fiducia si è oscurato, complice la Brexit, in quasi tutti i settori industriali, soprattutto nella chimica e nell’industria elettrica.



Assai diversa l’opinione della Bundesbank così come è stata illustrata nel Bollettino Economico pubblicato il 17 agosto. “Ci sono le condizioni perché la Germania metta a segno tassi di crescita solidi nel secondo semestre dell’anno”, si legge nell’analisi dei collaboratori di Jens Weidmann. E se le vendite all’estero hanno sostenuto l’economia tedesca nei primi sei mesi dell’anno grazie al deprezzamento dell’euro, il clima dei consumi in Germania – secondo la Bundesbank – dovrebbe essere favorito “dal positivo andamento del mercato del lavoro e dei consistenti aumenti dei salari reali”.



Gli ultimi dati a disposizione sull’import-export confermano infatti che l’economia tedesca, come accade da almeno otto anni, realizza un avanzo commerciale superiore al 6%, in barba ai trattati Ue. Nel 2015 il surplus è stato di 248 miliardi di euro, nuovo record assoluto con una crescita del 6,4%. Nel corso dell’ultimo anno il saldo commerciale è cresciuto di più nei confronti dei partner europei che del resto del mondo.

I rischi di una frenata dell’export sono compensati dall’aumento dei consumi, conseguenza degli aumenti salariali benedetti dalla banca centrale e dalla maggior spesa pubblica che ha contribuito per lo 0,1% alla crescita del Pil (+0,4% nell’ultimo trimestre).

Il fiore all’occhiello di Wolfgang Schaeuble è l’andamento del bilancio pubblico. Nei primi sei mesi del 2016 la Germania ha accumulato un attivo di bilancio di 18,5 miliardi di euro. Il costo dell’ospitalità garantita a oltre un milione di rifugiati non ha impedito un aumento del surplus di bilancio rispetto ai 18 miliardi del primo semestre 2015. Anzi, il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble può aspirare a un nuovo record: 35 miliardi di attivo nel 2016. Inoltre, una parte del tesoretto (pari all’1,2% del Pil) servirà a distribuire benefici tra gli elettori in vista di due scadenze molto delicate: presto si voterà a Berlino, città per tradizione difficile per Angela Merkel, e nel Land agricolo del Meclemburgo. Il surplus tedesco annulla così, a livello Ue, i passivi di Francia e Italia. E a favorire l’exploit contribuisce il basso livello del costo del denaro: i mercati stanno pagando un pedaggio pur di prestare soldi alla Repubblica Federale.

La congiuntura offre però nuove occasioni di critica all’atteggiamento della Germania verso l’Eurozona. In barba a tutte le indicazioni in arrivo dal Fondo monetario internazionale e dal G-20, Berlino continua a inseguire, unica al mondo, l’obiettivo dell’azzeramento del debito. A nulla valgono gli inviti ad aumentare la spesa, nonostante il livello delle infrastrutture, dopo anni di austerità, lasci ormai a desiderare.

Come detto, nel corso dell’ultimo anno il saldo commerciale è cresciuto di più nei confronti dei partner europei che del resto del mondo. Eppure l’equilibrio delle partite correnti, cioè la somma degli scambi commerciali con l’estero, è un requisito essenziale per l’equilibrio dell’Eurozona. Se la Germania volesse assolvere al ruolo di Paese leader dell’area dovrebbe iniziare a consumare i prodotti dei vicini, in modo da distribuire loro parte della sua ricchezza. Oppure destinare una parte delle sue ricchezze a investimenti nell’Eurozona o, al limite, all’interno del Paese.

Purtroppo non andrà così. La politica tedesca resta quella di sempre: la Germania, afflitta dal problema dell’invecchiamento progressivo della popolazione (con un deficit previdenziale in prospettiva assai peggiore di quello italiano), si guarda bene dal destinare una porzione crescente agli investimenti. Vale per le imprese private, attente a decifrare le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Vale soprattutto per lo Stato, che non intende procedere a una politica fiscale espansiva, sorda ai richiami internazionali che puntualmente si ripeteranno oggi a Jackson Hole, alla conferenza dei banchieri centrali. Va avanti, al contrario, la strategia di sterilizzare gli effetti di un’eventuale crisi dei Btp o dei Bonos, cercando di mettere in agenda, dopo il principio del bail-in bancario, un obbligo analogo per il debito pubblico, da scaricare in caso di default sulle spalle dei contribuenti. 

Alla faccia dello “spirito di Ventotene”.