“Monte dei Paschi di Siena è una banca che oggi, come ho detto al Sole 24 Ore, è un bell’affare, a parte che proprio oggi è cresciuta di più del 40% e quindi è tornata a dei valori più consoni… Mps è una banca che ha attraversato vicissitudini pazzesche, non voglio parlare del passato, ma oggi è una banca che è risanata…”. Era il 21 gennaio scorso e Matteo Renzi, presidente del consiglio, perse – intervenendo a Porta a Porta – una buona occasione per tacere su quella che però in quel momento era effettivamente parsa a molti come una svolta nel risanamento del Monte, cioè la chiusura di un aumento di capitale che portava a 8 miliardi di euro i fondi freschi attinti dal mercato all’indomani dell’uscita di scena della vecchia gestione Mussari, sotto l’egida – dunque -del nuovo tandem, il presidente (poi uscito) Alessandro Profumo (a gennaio scorso già dimessosi da mesi) e l’amministratore delegato Fabrizio Viola.
L’episodio merita periodica memoria sia per ricollocare nell’ambito, assai ridimensionato, dell’imprudente esternazione d’ottimismo quel discorso – e in generale quel genere di discorsi in materia finanziaria – del Premier, sia perché è proprio il confronto tra quelle aspettative, così improvvidamente esternate, e la realtà che spiega la nuova fase critica che la banca senese sta attraversando.
Dal 21 gennaio a oggi il titolo del Montepaschi ha perso il 66% circa del suo valore, altro che “banca risanata”. E quel che è peggio, dal 27 giugno – ovvero all’indomani del verdetto degli “stress test” europei che l’hanno ovviamente classificata come unica banca italiana a corto di capitali, e dell’annuncio di un piano JpMorgan-Mediobanca che dovrebbe salvarla – ha perso un altro 39%, scendendo da 0,39 a 0,24 euro. Intanto, sempre tra il 27 giugno e ieri, l’indice Ftse Italia Banche, che rappresenta tutte le banche italiane quotate (compreso lo stesso Mps, che quindi abbassa la media) ha guadagnato terreno, salendo del 16%. Forbice tra i due andamenti, 55%.
La banca senese vale oggi in Borsa poco più di 600 milioni. Come farà a raccogliere i 5 miliardi di euro di aumento di capitale che il piano della banca più grande del mondo promette di raccogliere, e come farà a pagare in commissioni alla stessa Jp Morgan e a Mediobanca un importo pari alla sua attuale, totale capitalizzazione, cioè circa 600 milioni di euro?
Domande lecite, non è vero? E ne legittimano qualcun’altra, che infatti serpeggia ormai sempre più nitida tra le voci di Borsa. Come potrà aver mai successo un piano così complesso e ambizioso, se è stato così male accolto dal mercato e se sembra – anzi ad oggi è – così povero sul piano industriale, cioè sguarnito di un progetto gestionale che convinca? In effetti solo per pagare le commissioni sull’operazione il Monte dovrebbe investire l’utile di un anno. E con 5 miliardi si acquista oggi in Borsa il 35% del capitale di Unicredit!
Riecheggiano sinistre le critiche al progetto Jp Morgan Mediobanca mosse dall’autore del “contropiano”, che il consiglio d’amministrazione del Monte dapprima pensò di interpellare e poi disdisse, Corrado Passera. Per “l’inventore” di Bancoposta, oltre che ex capo operativo di Intesa Sanpaolo, ovvero di una delle banche oggi più forti e sane d’Europa, il progetto di piazzetta Cuccia e della banca americana manca di visione e progettualità industriale. Che Passera riteneva invece di aver ampiamente inoculato nel proprio piano, che prevedeva tra l’altro – giusto promemoria – “una profonda pulizia dei crediti non performing (4.5 miliardi)”, “una forte ripatrimonializzazione” (tra 6 e 7 miliardi, di cui solo 2,5 di aumento di capitale) e “un robusto piano imprenditoriale che assicuri un significativo recupero di redditività (ROE obbiettivo intorno al 10%)”. E ancora: “Le sofferenze verrebbero ulteriormente svalutate di 1,5 miliardi raggiungendo il 68% di copertura”; “Gli Unlikely To Pay verrebbero svalutati di ulteriori 3 miliardi portando la copertura al 47% medio (le posizioni scadute oltre un anno raggiungerebbero lo stesso grado di copertura delle sofferenze)”; “un accordo con il fondo Atlante toglierebbe definitivamente dal bilancio Mps tutti i crediti in sofferenza senza, però, far perdere ai suoi azionisti il possibile recupero di valore che quelle posizioni ancora possono generare”.
E varie altre cose: “Conversione volontaria di una parte dei prestiti subordinati per circa un miliardo che metta questa categoria di investitori in condizione di beneficiare – se lo vorranno – del rilancio della banca in qualità di azionisti a pieno titolo. Destinazione a patrimonio dell’intero risultato 2017. Contributo di Atlante alla Bad Bank con 1,6 miliardi di mezzanino”…
Ma che senso ha rinvangare questo libro dei sogni? Ormai è acqua passata. O no? La verità è che le prossime settimane – sette o otto – saranno cruciali. L’andamento severo dei mercati sembra voler vanificare il palese attendismo che il piano Jp Morgan sconta, la scelta cioè di entrare nel vivo soltanto all’indomani di una scadenza politica imprecisa nella data e incerta nell’esito, il referendum costituzionale, tanto che lo stesso governo non sta più attribuendo a essa quel valore determinante che per mesi le ha dato di “capolinea” politico. E poi che c’entra il tentativo improcrastinabile di avviare il Monte al risanamento con le vicende del governo?
Dunque o il piano Jp Morgan si attiverà prima, oppure il combinato disposto dello scetticismo dei mercati e l’ormai diffuso senso di inopportunità di un’attesa suggerita solo da improprie considerazioni politiche potrebbero realmente sferrare un colpo di grazia a una grande banca che, invece, ha i numeri per risollevarsi. È chiaro che con la determinazione che lo contraddistingue, ma anche molta “impoliticità”, Passera si è posto come garante manageriale, e anzi imprenditoriale, della qualità del suo piano, mentre l’attuale management del Monte, il pur valido Viola, è un elemento dato in qualche modo per scontato da Jp Morgan, pur avendo effettivamente il manager già molto chiesto al mercato senza però riuscire a portare i risultati voluti con gli 8 miliardi già attinti.
In concreto: ci sono le premesse affinché qualcuno o qualcosa provvedano ad archiviare il piano Jp Morgan-Mediobanca, con i 600 milioni di commissioni a esso connesse, e a rilanciare il piano Passera? È la domanda per eccellenza sul tormentato mercato bancario italiano di oggi.