Una forza di gravità implacabile come le leggi di Newton sta trascinando verso il basso l’economia italiana: dal tasso di crescita dell’1,2%, difeso per mesi dal premier Matteo Renzi con un’ostinazione degna di miglior causa, si sta scendendo, gradino dopo gradino, a livelli sempre più bassi: l’ultima spinta al ribasso (per ora) arriva dalle stime della Confindustria, struttura che non può essere accusata di ostilità preconcetta verso il governo: il Centro studi di Confindustria ha rivisto leggermente al ribasso il Pil per il 2016 (+0,7% da 0,8%) e 2017 (+0,5% da 0,6%), dopo il deciso taglio delle stime elaborato a luglio in seguito al voto sulla Brexit.



Per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan le nuove stime del governo “dovrebbero essere diverse e migliori di quelle del Csc” per entrambi gli anni. Ma dopo l’imbarazzante gaffe delle scorse settimane, quando il Mef anticipò una revisione al rialzo delle stime dell’Istat che poi non ci fu, il dubbio è che Padoan su questo tema non sia così sereno e oggettivo come dovrebbe essere un economista del suo valore. Ma tant’è. Il problema non sta in una frenata di qualche decimale, bensì nella conferma di un trend di lunghissimo periodo. Come ribadisce la Confindustria, aumenta il divario di crescita a sfavore dell’Italia nei confronti degli altri paesi europei: tra il 2000 e il 2015 il Pil è aumentato del 23,5% in Spagna, del 18,5% in Francia e del 18,2% in Germania, mentre è calato dello 0,5% in Italia. E nel 2017, sebbene già del tutto insoddisfacente (+0,5%), la crescita non è scontata e va conquistata.



L’Italia, rileva il Centro studi Confindustria, ha alle spalle un quindicennio perduto. Ai ritmi attuali, l’appuntamento con i livelli lasciati nel 2007 è rinviato al 2028 senza offrire troppe speranze su un cambio di passo: la crisi ha comportato un netto abbassamento del potenziale di crescita, che nelle stime del Fmi è sceso dall’1,2% allo 0,7%.

La congiuntura è complicata dalla prossima scadenza referendaria. Al di là delle parole, inopportune (forse) nel metodo ma inattaccabili nel merito dell’ambasciatore Usa. Basta citare il report rilasciato ieri da Morgan Stanley che attribuisce al Sì solo il 35% di possibilità di vittoria: “I mercati sono troppo rilassati sull’esito del referendum e sulle sue conseguenze”, si legge. Il consiglio della banca di New York è di vendere i titoli di Stato italiani e in generale le azioni europee “per ridurre il rischio politico”, si legge nel sunto che ne fa Bloomberg. 



Altri sono più possibilisti: Goldman Sachs attribuisce al Sì il 60% di probabilità di successo. Ma le previsioni del mercato sono comunque improntare alla prudenza, come dimostra il comportamento dello spread tra i Btp e i Bonos spagnoli: al 24 giugno, il giorno dopo il voto della Brexit, il Btp era in vantaggio con un rendimento di otto punti base più basso: 1,54% per Roma, 1,62% per Madrid. A Ferragosto il sorpasso era consumato, con il Bono a 0,91% e il Btp a 1,03%. Nelle settimane successive le quotazioni del bond italiano hanno continuato a scendere, per cui oggi il distacco è di 21 punti base (Madrid 1,11%, Roma 1,32%). 

Ma qui sorge spontanea una domanda: come mai la Spagna, senza una maggioranza di governo dalla fine dello scorso anno e con la prospettiva dell’ennesimo voto anticipato, è percepita dai mercati come più affidabile dell’Italia? La risposta, in parte, è legata al diverso dinamismo economico di Madrid che, complice lo sforamento del Patto di stabilità, avanza del 3%. In parte, poi, conta il fatto che il debito pubblico spagnolo, pur in forte e preoccupante crescita, è inferiore a quello italiano che nel 2016, nonostante l’ennesimo surplus del fabbisogno primario, è cresciuta di 80,5 miliardi a quota 2.205 miliardi.

Più di tutto, però, conta la capacità dimostrata da Madrid di saper fare le riforme anche operando sul lato dell’offerta, non solo intervenendo in maniera spesso avventurosa su quello della domanda. La politica economica del Bel Paese, e su questo Renzi non ha fatto eccezione (anzi…), consiste nell’espansione della domanda attraverso l’aumento del debito. E le riforme strutturali, per troppo tempo, sono state modeste o non hanno mai visto la luce (vedi la legge sulle liberalizzazioni).

In questo contesto la perdita progressiva di velocità del Prodotto interno lordo italiano si spiega in vari modi: la caduta demografica, la forza frenante delle corporazioni, l’incapacità di stare in un accordo di cambio senza farlo precedere dalla richiesta di “flessibilità” cioè la licenza a trasgredire che incide sulla nostra credibilità. E, su tutto, la presunzione che un debito salito al 135% sul Pil in anni di condizioni finanziarie eccezionale non sia un problema. È questa la ricetta che ci ha fatto precipitare al fondo della classifica Ue: l’euro, l’austerità imposta dalla Germania o l’immigrazione non c’entrano.