Lo “strappo” di Bratislava ha dietro un calcolo tattico a uso interno, ma tradisce anche il nervosismo di Matteo Renzi che nell’Unione europea non sta ottenendo quello che avrebbe voluto. Non abbastanza visibilità e tanto meno influenza: l’obiettivo di un ménage a trois con Parigi e Berlino si dimostra velleitario, visto che tedeschi e francesi intendono fare da soli rilanciando (se possibile) il solito asse renano; un aiuto sugli immigrati è sfumato di fronte alla priorità assegnata al fronte balcanico che vede al centro l’accordo con la Turchia; quanto alla flessibilità, non è aria, Angela Merkel è stata chiara anche a Ventotene ed è difficle che Jean-Claude Juncker possa imporre una linea diversa.



Frustrazione, dunque, da parte di Renzi che si trova intrappolato in una situazione da Comma 22. Negli incontri prima di Bratislava ha cercato di far passare l’idea che solo lui è il baluardo contro una nuova ondata di instabilità che verrebbe innescata dalla sconfitta al referendum costituzionale. Su questo non ha torto, perché un successo del No equivale a mettere di nuovo l’Italia sul banco degli accusati di instabilità politica permanente. Ma deve ancora convincere Berlino, Parigi e Bruxelles a sostenerlo. Il guaio è che per vincere il referendum il governo ha bisogno di allargare i cordoni della borsa, ma in realtà può ottenere più flessibilità dall’Ue solo se vince il referendum. Ecco il circolo vizioso dal quale Renzi cerca di uscire senza riuscirci, almeno finora. Che cosa può fare?



Non ha molti margini in politica economica. L’obiettivo è ottenere una deviazione per il deficit pubblico di mezzo punto di prodotto lordo rispetto a quanto annunciato in primavera: cioè dall’1,8 al 2,3 per cento. Ma se riesce a far passare l’idea che il peggioramento della congiuntura internazionale (per non parlare del terremoto) è una circostanza eccezionale, potrebbe anche avvicinarsi di qualche altro decimale al tetto del 3 per cento. Vedremo se gli sherpa di palazzo Chigi e del Tesoro saranno abili e convincenti abbastanza. Tuttavia è chiaro che rosicchiando qualche spazio per spendere in disavanzo peggiora il debito pubblico sia in quantità (ogni mese tocca un nuovo record), sia in rapporto a un Pil in fase di evidente rallentamento.



Ma Renzi a Bratislava ha sollevato (per lo meno in conferenza stampa) una questione di fondo: il Fiscal compact non funziona. Anche chi lo ha sostenuto (non dimentichiamo che è stato un cavallo di battaglia di Mario Draghi per vincere la resistenza tedesca a una politica monetaria iper-espansiva) deve ammettere che lo hanno rispettato solo quei paesi che volevano farlo e ne hanno la possibilità, per i quali dunque era del tutto inutile. Gli altri, a cominciare dall’Italia, non sono in grado di pareggiare il bilancio pubblico un po’ per colpa loro, un po’ per la congiuntura, visto che i prezzi sono ancora piatti e il prodotto lordo della zona euro ristagna.

C’è un terzo fattore, politico non economico, che rema fortemente contro il Fiscal compact: il populismo. Nessuno vuole il rigore nei conti pubblici, anzi tutti da destra e da sinistra invocano un intervento più ampio dello Stato o per ragioni assistenziali (il reddito di cittadinanza, per esempio, o i salvataggi delle imprese industriali e delle banche) o perché è tornata in voga la “politica industriale”, cioè lo Stato banchiere e industriale. Ciò è vero in Italia dove la Cassa depositi e prestiti ormai estende i suoi rami anche nelle banche (come nel caso del Monte dei Paschi di Siena). È vero nella Francia sempre statalista o per lo meno colbertista. È vero in Germania dove lo Stato controlla Commerzbank e sta studiando come utilizzarla per consolidare la grande malata, cioè Deutsche Bank.

Renzi, dunque, dice quel che tutti pensano. Ma qual è l’obiettivo? Il Fiscal compact è stato fatto votare dai parlamenti. Adesso bisogna dire “abbiamo sbagliato”? La Merkel non lo farà mai, anche perché i suoi conti sono in ordine e in fondo può permettersi di finanziare il Modell Deutschland. Si possono prevedere eccezioni per alcuni paesi, predeterminando così quell’euro di serie A e di serie B che tanto piace a Joseph Stiglitz. O si può mettere nero su bianco quel che avviene già di fatto: uno slittamento sine die, collegando il rispetto del patto a un obiettivo di crescita nominale (cioè prodotto e prezzi) che lo renda sostenibile. Così come la politica monetaria ha un obiettivo (il due per cento di aumento annuo dei prezzi), anche la politica fiscale avrebbe il suo in termini di sviluppo: il cinque per cento, per esempio (due per l’inflazione e tre per il prodotto reale).

Tutto si può discutere, ma a questo punto, dopo “lo strappo”, Renzi dovrebbe presentare una proposta in grado di raccogliere il consenso di chi si sente soffocato dal corsetto dell’austerità. Questo consenso, sia chiaro, non esiste. La Francia preferisce violare i trattati invece di riformarli. La Spagna senza governo va avanti di elezione in elezione. La Grecia è di nuovo in ambasce. Dunque, il rischio di restare isolati è più che concreto. Ma il governo italiano potrebbe comunque recuperare uno spazio di manovra politico, almeno di qui al referendum. Poi, chi vincerà vedrà.