Le buone notizie non mancano. Ma arrivano da lontano. Le statistiche di Pechino segnalano che finalmente, dopo 22 mesi di contrazione, l’economia manifatturiera cinese è tornata ad espandersi: l’indice Pmi ufficiale, che traccia l’andamento dell’attività delle imprese di dimensioni maggiori, è salito a 50,4, tornando in territorio di crescita e battendo le attese, che prospettavano una lettura a 49,9, invariata da luglio. Gli scettici potrebbero sospettare che le autorità abbiano influito sul risultato con l’obiettivo di presentarsi con le carte in regola al G20 di Shanghai di fine settimana, dedicato proprio al tema della ripresa dell’economia globale che tarda ad arrivare. Ma le statistiche non fanno che confermare una lunga e paziente marcia di transizione verso un’economia basata sui servizi, favorita da una prudente svalutazione dello yuan. 



Altra musica, ahimè, per l’Europa. Ad agosto la crescita del settore manifatturiero dell’eurozona ha perso slancio e i tassi d’espansione sono rallentati per la produzione, i nuovi ordini e le esportazioni, provocando un indebolimento della creazione dei posti di lavoro. L’indice finale Markit PMI sul Manifatturiero dell’Eurozona di agosto si è attestato a 51,7, ovvero il valore più basso in tre mesi e in ulteriore discesa rispetto al record sull’intero anno in corso dello scorso giugno.



In Italia l’indice è scivolato a 49,8 punti, sotto la soglia che divide stagnazione e crescita. La crescita della produzione manifatturiera nell’eurozona è rallentata fino a toccare il valore minimo su 3 mesi, mentre l’afflusso di nuovi ordini è aumentato al ritmo più debole in un anno e mezzo. Le imprese hanno riportato un aumento più lento dei nuovi ordini sia a livello nazionale che estero.

I dati mostrano comunque un andamento fortemente differenziato all’interno della Ue: sei nazioni su otto sono in crescita. La Germania e i Paesi Bassi hanno riportato forti espansioni, mentre la crescita è risultata relativamente debole in Austria, Spagna e Grecia. Infine, in Francia e in Italia sono state osservate contrazioni. In particolare, il calo del Pmi italiano è il primo dal gennaio 2015; per la prima volta la crescita della produzione industriale si è contratta fino a sfiorare la stagnazione, i nuovi ordini sono in flessione per la prima volta da 19 mesi. 



Al di là del trionfalismo di palazzo Chigi, perfino l’ottimismo di Matteo Renzi vacilla. E così si cambia registro. Passano di moda i bonus fiscali, tipo la decontribuzione per i neo-assunti che pure è servita nel primo anno ad estendere i contratti a tempo indeterminato ma che sta esaurendo la sua efficacia. La nuova carta da giocare è la crescita della produttività, da ottenere prima attraverso la detassazione dei premi di produzione poi favorendo una riforma della contrattazione aziendale, spostando il peso dei contratti in sede locale.

Basterà questo a ridare slancio alla produttività dell’economia italiana? Facile rispondere di no, anche per i tanti problemi applicativi. Basti dire che la detassazione nei premi non raggiungerà le piccole e medie imprese sotto i 15 dipendenti. Meglio sarebbe attivarsi sul fronte del cuneo fiscale, montagna troppo ripida da scalare per un governo impegnato nella battaglia per sopravvivere al referendum.

Soprattutto, però, le mosse del Governo restano improntate alla filosofia del deficit spending, all’insegna di una flessibilità che non convince affatto (o peggio) gli investitori. La strada maestra non consiste nel sollecitare più spesa, ma nel riqualificare quella esistente e, qualora non bastasse (e non basterà) ridurre il perimetro di quella attuale. La medicina rischia di essere amara perché sarà difficile non intervenire sui diritti acquisiti, tipo le pensioni non coperte dai contributi effettivamente versati. O il prezzo da far scontare ad azionisti ed obbligazionisti subordinati delle banche, per consentire, in tempi rapidi, lo smaltimento dei crediti deteriorati e la crescita degli impieghi in attività nuove e profittevoli, non in aziende decotte che sopravvivono solo grazie ai tassi zero.

E’ una medicina amarissima, che l’azione di governo può in parte alleviare con azioni di redistribuzione del reddito, attivando le privatizzazioni che non avanzano (vedi municipalizzate) o con una vera spending review. Lo farà? Senz’altro no, visto che la priorità è sopravvivere alla scadenza del referendum. E dopo? Chissà. Difficile che la congiuntura internazionale, tra fiammate protezionistiche, aria di rialzo dei tassi e e congiuntura fredda un po’ ovunque (salvo gli Stati Uniti) possa darci una mano.